international analysis and commentary

Potere presidenziale e politica estera

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Soprattutto dopo le elezioni di midterm del prossimo novembre, le controparti di Obama all’estero si chiederanno inevitabilmente se il presidente è ancora in pieno controllo delle leve del potere a Washington, nella fase finale del suo doppio mandato. Molto dipenderà quindi dalla sua credibilità personale, che a sua volta si misura anche nel decisionismo in politica interna. Proprio sul piglio decisionista si è incentrato l’annuale discorso alla nazione, il 28 gennaio, che ha sferzato il Congresso minacciando interventi diretti dell’Esecutivo in caso di stallo legislativo o episodi di ostruzionismo.

Nei pochi riferimenti alle questioni internazionali, il filo conduttore è sembrato quello della perseveranza e della modestia negli obiettivi. L’eccezione (quanto alla modestia) è in parte il negoziato nucleare con l’Iran: questo è certo assai ambizioso nel medio termine, ma comunque deve procedere per piccoli passi che – ha precisato Obama – saranno rigorosamente verificabili. Ha poi aggiunto che opporrà il veto a un eventuale decisione del Congresso di imporre sanzioni che possano danneggiare il percorso negoziale in atto, ma anche che sarà lui il primo a imporne di ancora più stringenti qualora Teheran dovesse violare gli accordi. In sostanza, un classico esercizio di equilibrio tra moderazione e fermezza, condensato nella frase più riuscita sulla politica estera: “Nell’interesse della nostra sicurezza nazionale, dobbiamo dare alla diplomazia una possibilità di successo”.

Il passaggio a cui si è data maggiore enfasi è stato quello sul ritiro quasi parallelo delle truppe americane dall’Iraq (completato) e dall’Afghanistan (parziale). Sul futuro dello Stato afgano il presidente ha rimarcato che non verrà comunque ridotto l’impegno americano per prevenire e soffocare eventuali minacce terroristiche. Queste, del resto, sono altamente dinamiche, come dimostra la lista di paesi in cui si sono già manifestati dei focolai di attività terroristiche che gli Stati Uniti stanno combattendo con vari strumenti: Yemen, Somalia, Iraq, Mali, Siria. Tra quegli strumenti vi sono naturalmente i tanto discussi droni, sui quali la Casa Bianca si è impegnata a fissare dei limiti di impiego senza certamente rinunciarvi, vista la loro indubbia efficacia in molte situazioni.

Uno specifico concetto sul rapporto tra diplomazia e strumento militare, da sempre caro a Obama, ha trovato spazio in questo State of the Union: la via diplomatica è sempre preferibile e in ultima analisi più efficace, ma va appoggiata dalla seria minaccia di usare la forza ove essa si rendesse indispensabile. Il caso citato in tal senso è quello siriano, sia per il programma in corso di eliminazione delle armi chimiche sia per il tentativo (per la verità tuttora in stallo) di fermare la guerra civile.

Due temi di grande rilevanza interna a cui ha fatto riferimento il discorso hanno implicazioni internazionali: il passo decisivo compiuto in questi ultimi anni verso l’indipendenza energetica americana (con lo shale gas come “soluzione ponte” mentre si lavora per fare degli Stati Uniti un leader nelle fonti rinnovabili), e la gestione dell’immigrazione (con la tendenza, tutto sommato bipartisan, a una maggiore flessibilità nei criteri per la regolarizzazione). Soprattutto sul primo tema, l’atteggiamento di Obama è, dall’inizio della sua presidenza, molto “unilaterale”, cioè ispirato soltanto agli interessi americani di cui eventualmente si valuteranno poi gli effetti internazionali. In altre parole, si conferma che l’orientamento di Washington a delegare compiti regionali ai propri partner riguarda le situazioni dove non sono in gioco i propri interessi primari; tutt’altro approccio (unilaterale, appunto) si applica invece quando si tratta di un core business nazionale. E ciò vale anche per gli effetti ambientali delle politiche energetiche, su cui Obama ha ormai scelto una via totalmente pragmatica dopo gli iniziali entusiasmi per i grandi accordi globali sul clima.

La sezione finale del discorso presidenziale è stata dedicata a un soldato gravemente ferito in Afghanistan, legando la sua vicenda a una tradizionale visione dell’America: non solo un paese ma anche un’ideale, che si conquista solo a caro prezzo. Quasi una sfida per gli avversari politici interni che dovrebbero esitare almeno a violare lo spirito di unità nazionale a sostegno delle missioni (e dei ritiri, si può aggiungere) delle forze armate.

Su tutti i dossier menzionati nel discorso al Congresso e alla nazione, il quesito principale è ora quanto Obama saprà esercitare i poteri della presidenza. Dovrà farlo trovandosi, nel bene e nel male, nella condizione di non poter essere comunque rieletto nel 2016.

Un dato significativo è intanto che i Repubblicani hanno deciso di reagire al discorso non soltanto con una ma con ben tre repliche (concentrandosi, come previsto, sul versante della politica interna). In ogni caso, è una scelta che differisce dalla prassi consolidata, e che riflette le varie anime del partito conservatore – forse troppe per competere al meglio con i Democratici.