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L’elastico tra Norvegia e Unione Europea

New Geoeconomics #8

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La Norvegia non è paese membro dell’Unione Europea, sebbene risulti de facto essere efficacemente integrata con essa, poiché è parte dell’Associazione europea di libero scambio (AELS), dello Spazio economico europeo (SEE), dell’acquis regolatorio di Schengen e, infine, una delegazione ufficiale dell’Unione Europea ha sede stabile nella capitale norvegese.

Il dibattito pubblico sull’adesione della Norvegia all’Unione Europea è di lunga data. Nel 1972, un primo referendum di adesione è respinto dal 53,5% dei votanti, mentre una ventina di anni dopo, un secondo referendum vede il No toccare il 52,2%: cifre non plebiscitarie, dunque. Inoltre, come spesso accade, emerge la contrapposizione tra città e zone extra-urbane, poiché nella capitale Oslo e nelle contee che la circondano – ovvero Akershus, Vestfold, Buskerud e Østfold – l’elettorato vota a maggioranza per l’adesione, anzi, più precisamente, rispetto al referendum del 1972, la contea di Østfold si aggiunge alle contee urbane a favore dell’adesione. Tali cifre dimostrano che nella società norvegese, di base, non esiste un rifiuto aprioristico all’opzione dell’ingresso nell’Unione Europea.

 

Tra i paesi fondatori dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), la Norvegia ha una posizione particolare all’interno dell’alleanza fondata in funzione antisovietica, poiché rappresenta la «guardiana» della rotta di entrata nell’Atlantico del Nord della flotta navale e sottomarina sovietica di stanza a Severomorsk nella penisola di Kola. Oggi in funzione antirussa, la Norvegia mantiene ancora tale ruolo.

Nel corso della Guerra Fredda, come pure nei decenni successivi, la Norvegia ha sviluppato con gli Stati Uniti un rapporto particolare, o quanto meno gli Stati Uniti mantengono nei confronti della Norvegia un’attenzione specifica. Una condizione che, forse, porta la Norvegia a mantenere opportunisticamente i piedi in due scarpe diverse, un piede in una scarpa a stelle e strisce e un piede in una scarpa a stelle e sfondo blu.

Forse non è un caso se lo Statens pensjonsfond, il fondo sovrano norvegese generato dalla vendita di petrolio e gas naturale estratti dal sottosuolo nazionale, il più grande al mondo per riserve valutarie, contenga per il 56% del suo valore investimenti negli Stati Uniti e solo per il 13% investimenti in paesi membri dell’Unione Europea, con a seguire il Giappone con una quota del 6,6%, in accordo con i dati pubblicati dal Norges Bank Investment Management a inizio 2025.

Secondo gli ultimi dati dell’Istituto di statistica norvegese (Statistisk sentralbyrå) e della Commissione europea, nel 2023 la Norvegia importa beni dall’Unione Europea per un valore di 61,7 miliardi di euro contro un valore di 119,2 miliardi di beni esportati, pari a uno scambio complessivo di 180,9 miliardi e un surplus commerciale di 57,6 miliardi.

Per le esportazioni, la Norvegia trasferisce complessivamente verso l’Unione Europea il 67,5% del valore dei beni complessivamente venduti all’estero, principalmente nella forma di prodotti minerari come petrolio e gas naturale (52,9%) e prodotti animali come pesce (7,2%). Segue il Regno Unito con il 19,1% e gli Stati Uniti con il 3,2%.

Per le importazioni, la Norvegia prende dall’Unione Europea il 55,7% del valore dei beni complessivamente acquistati dall’estero, principalmente nella forma di macchine utensili e attrezzature (16,8%) insieme a mezzi di trasporto (15,1%). Seguono la Repubblica Popolare Cinese con l’11,2% e gli Stati Uniti con il 7,6%.

Per scambi commerciali l’Unione Europea è il primo partner della Norvegia con il 63,3% del valore economico dei beni scambiati, seguita a lunga distanza da Regno Unito con il 13,9% e dalla Repubblica Popolare Cinese con il 5,2%.

È importante precisare che gli scambi commerciali tra la Norvegia e l’Unione Europea sono sbilanciati, ovvero la prima quasi soverchia la seconda. Negli ultimi dieci anni, infatti, ovvero nel periodo 2014-23, la bilancia commerciale è stata costantemente positiva per la Norvegia, cioè con esportazioni superiori alle importazioni, eccezione fatta per l’anno 2020, per complessivi 215 miliardi di euro.

 

Dal 2014, gli scambi commerciali aumentano del 60% crescendo a un tasso composto medio annuo del 4,8%, con il 2022 anno spartiacque, ovvero l’anno dell’invasione russa dell’Ucraina. Come noto, a questa segue la diminuzione delle forniture all’Europa di gas russo, e dunque la ricerca di fonti alternative, sebbene più costose, che porta al raddoppio delle esportazioni norvegesi verso l’Unione Europea, principalmente nella forma di prodotti energetici come petrolio e gas naturale.

Per Norsk Petroleum, una agenzia del Ministero dell’Energia norvegese, nel 2023 il 67,9% del petrolio norvegese e il 65,5% del gas naturale norvegese espressi entrambi in volume sono esportati in paesi membri dell’Unione Europea.

Da questo quadro economico emerge che la Norvegia «vende» all’Unione Europea i migliori prodotti che la natura le ha donato, ma investe negli Stati Uniti i proventi dei suoi scambi commerciali con l’Unione Europea. Il rapporto con l’Europa, dunque, appare piuttosto sbilanciato a favore del paese scandinavo, forse eccessivamente opportunistico, anzi egoistico, come un ambasciatore dell’Unione Europea definisce il comportamento della Norvegia, verso la quale mostra anche piena insoddisfazione, anzi, frustrazione.

L’Unione Europea, infatti, chiede alla Norvegia maggiori importazioni di energia elettrica da fonti rinnovabili, come l’idroelettrico – attraverso la rete elettrica terrestre e sottomarina collegata alla Danimarca, alla Germania, alla Svezia e ai Paesi Bassi – come pure di attuare tre direttive energetiche riguardanti le energie rinnovabili, l’efficienza energetica e il rendimento energetico nell’edilizia.

La coalizione di governo composta del Partito laburista (Arbeiderpartiet) e del Partito centrista (Senterpartiet) collassa nel gennaio scorso dopo che i due partiti di governo entrano in rotta di collisione sia sul rinnovo del contratto di fornitura di energia elettrica all’Unione Europea sia per l’attuazione delle tre direttive richieste dall’Unione Europea, portando il Partito centrista a fuoriuscire dal governo.

«Riteniamo che sia sbagliato cedere più potere all’Unione Europea, e che dovremmo piuttosto perseguire la via opposta» tuona alla stampa norvegese Trygve Slagsvold Vedum, il leader del Partito centrista e ministro delle Finanze uscente dell’attuale governo norvegese. Eppure, fattualmente, la Norvegia prospera, seppure ingratamente, per il suo stretto rapporto economico con l’Unione Europea. un rapporto come detto anche politico: dato che la Norvegia appartiene all’Associazione europea di libero scambio, allo Spazio economico europeo e alla Convenzione di Schengen adotta pressoché pedissequamente la quasi totalità delle normative emanate da Bruxelles.

Mappa della Scandinavia (1539) di Olaus Magnus

 

Nel mese di marzo 2025 si conducono tre nuovi sondaggi tra la popolazione norvegese per comprendere quanto l’ago del barometro dell’opinione pubblica sia spostato sulla posizione favorevole a un’adesione all’Unione Europea.

Ebbene, i tre sondaggi evidenziano un indice di favore verso l’adesione all’Unione Europea che oscilla tra il 35% e il 40%, un risultato che merita considerazione se confrontato con un sondaggio compiuto dieci anni fa (17,8%), anche se è da sottolineare che tale proporzione è sempre molto volatile nel tempo, con punte del 45% negli anni 2006 e 2007, dunque, apparentemente, a opporsi all’adesione della Norvegia all’Unione Europea potrebbe essere più il potere partitico, o forse il potere bancario, che le aspirazioni della società norvegese.

Due passati referendum respingono con maggioranze, seppur risicate, l’adesione all’Unione Europea, tuttavia, i tempi potrebbero cambiare, anzi potrebbero essere cambiati. La nuova amministrazione statunitense è apertamente ostile all’Unione Europea e manifestamente maldisposta verso la NATO.

Nel primo caso, l’ostilità è esternata attraverso la minaccia di dazi che metterebbero in gravi difficoltà le esportazioni dei paesi membri dell’Unione Europea e, ancor di più, dei paesi non membri dell’Unione Europea come la Norvegia, sebbene si tratti di valori marginali, e nonostante i dazi possano avere degli effetti nocivi più sulle famiglie e sulle imprese statunitensi che sulle rispettive entità europee.

Nel secondo caso, la mal disposizione è espressa attraverso la minaccia di ritiro degli Stati Uniti dall’alleanza militare euroatlantica o anche di non copertura difensiva in caso di attacco russo a uno o più dei paesi alleati che spendono meno del 2% del proprio prodotto interno lordo in armamenti. È il caso della Norvegia, che, secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), ha speso in difesa nel 2023 l’1,6% del proprio prodotto interno lordo – anche se un comunicato stampa della Nato stima che a fine 2024 la Norvegia porterebbe la spesa militare a 2,2%, definibile letteralmente come un salto quantico. È interessante poi notare che i paesi membri della NATO che spendono meno, sono i paesi geograficamente più distanti dalla minaccia russa.

 

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La Norvegia è militarmente a rischio di invasione russa, poiché condivide con la Russia un confine di 197,7 chilometri, a nord della Finlandia. A preoccupare ancora di più sono però le isole dell’arcipelago Svalbard, un’area sotto la sovranità norvegese ma priva di personalità giuridica, cioè esclusa da trattati come la Convenzione di Schengen oppure lo Spazio economico europeo.

Le isole Svalbard sottostanno, infatti, al Trattato delle Svalbard, un accordo internazionale risalente al 1920, il quale stabilisce la sovranità della casa reale dei Glücksburg sulle isole, ma impone ai sovrani norvegesi una serie di restrizioni, quali le attività militari, mentre consente ai paesi firmatari del trattato di avviare ed esercitare attività commerciali, incluso lo sfruttamento delle risorse naturali, come già avvenuto in passato per le miniere di carbone da parte di sovietici prima, e russi poi.

La collocazione strategica delle Svalbard

 

Tra i paesi firmatari del trattato, e dunque degli aventi diritto allo sfruttamento delle risorse dell’arcipelago di Svalbard, ci sono anche la Russia del presidente Putin e la Cina del presidente Xi. A Mosca e Pechino, molto presumibilmente, avranno cerchiato di rosso sulle proprie mappe le isole Svalbard, e in generale l’intera area artica, per le attività di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi ancora presenti nel Mare Artico, ma anche per la creazione di possibili basi aeronavali.

Sulle isole dell’arcipelago Svalbard c’è ancora una porzione di isola posseduta da privati, il Søre Fagerfjord, la proprietà privata più a nord del mondo, 60 chilometri quadrati di montagne, un ghiacciaio e cinque chilometri di costa dentro a un’area protetta. Il possedimento è stato posto in vendita recentemente dalla società immobiliare proprietaria per l’equivalente di 300 milioni di euro, immediatamente bloccata dal governo di Oslo sotto il pretesto di questioni di sicurezza nazionale contro le crescenti attività di Russia e Cina nel Mar Glaciale Artico.

 

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Tra i principali proprietari dell’appezzamento di Søre Fagerfjord vi è una cittadina norvegese di origini russe, un particolare inquietante visti gli scenari che si prospettano all’orizzonte, ovvero di militarizzazione russa di gran parte dell’estremo nord russo e delle attività cinesi sia esplorative sia commerciali in cerca di una via artica alternativa alle rotte navali meridionali.

L’arcipelago Svalbard è già conteso con la Russia da secoli, se poi la Cina acquistasse un pezzo di Europa, e la Cina è un possibile acquirente, e dunque vi mettesse piede, allora un cataclisma geopolitico si abbatterebbe non solo sulla Norvegia, ma sull’intera area euroatlantica.

L’Unione Europea è fattualmente vitale per la Norvegia, non solo per una questione economica di scambi commerciali con esportazioni nette positive per il paese scandinavo, che poi Oslo trasforma in una questione finanziaria dalle dimensioni planetarie con investimenti ciclopici negli Stati Uniti, ma è, e sarà, indispensabile anche per motivi di difesa militare, poiché con o senza l’attuale presidente degli Stati Uniti, i tempi sono cambiati senza alcun ritorno all’età dell’oro. La strada è una sola. E va verso l’Unione Europea.