La Serbia, crocevia strategico dei Balcani
New Geoeconomics #8
A oltre un decennio dall’apertura dei negoziati di adesione all’Unione Europea, la Serbia si trova ancora a metà del guado. Se da un lato Bruxelles continua a ribadire l’impegno a integrare i Balcani occidentali entro il 2030, dall’altro il percorso serbo racconta una storia complessa, fatta di scelte solo parziali e di ambiguità strategiche non ancora risolte. A Belgrado, il cammino verso l’Europa si intreccia con rapporti consolidati con Mosca e Pechino, segno di un equilibrio delicato e tutt’altro che definitivo.
Le lentezze del processo di adesione
Sul piano formale, il processo di adesione ha registrato passi avanti significativi. L’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, firmato nel 2008 ed entrato in vigore nel 2013, ha rappresentato un impegno concreto da parte di Belgrado verso una convergenza normativa e istituzionale. Con la candidatura ufficiale del 2012 e l’apertura dei negoziati nel 2014, si sarebbe dovuta aprire una fase di trasformazione profonda. Tuttavia, i progressi appaiono ancora frammentari.
Le riforme relative allo stato di diritto, alla governance democratica e all’autonomia delle istituzioni avanzano lentamente, mentre il sostegno interno al progetto europeo si è indebolito. La guerra in Ucraina ha ulteriormente complicato il quadro, ridisegnando le priorità dell’agenda europea, rallentando il processo di allargamento e alimentando nella società serba la percezione di una UE distante e discontinua nella sua strategia regionale.
Il 16 aprile 2025, l’Assemblea nazionale serba ha dato la fiducia al nuovo governo guidato da Đuro Macut, con 153 voti favorevoli su 199. La nascita del nuovo esecutivo è avvenuta a seguito delle elezioni anticipate convocate dopo le dimissioni del precedente primo ministro, in un contesto segnato da tensioni interne, proteste popolari e crescenti pressioni internazionali per rilanciare il processo di riforme. Macut, esponente dell’ala moderata del Partito Progressista Serbo, ha promesso una linea più pragmatica e una rinnovata attenzione all’integrazione europea, pur senza rompere con l’asse strategico tradizionale con Mosca e Pechino. L’esecutivo si troverà ad affrontare un contesto interno ed esterno profondamente mutato, dove la collocazione geopolitica della Serbia resta ancora da definire.

Mosca e Pechino: vettori di influenza e alternative strategiche
Nonostante la dichiarata aspirazione europea, Belgrado mantiene relazioni solide con Mosca, specie nei settori dell’energia, della tecnologia e della cooperazione economica. A marzo 2025, il ministro Nenad Popović ha ricevuto nella capitale serba Maksim Oreshkin, vicecapo dell’amministrazione presidenziale russa, per discutere di progetti comuni in agricoltura, digitalizzazione e soprattutto per garantire forniture di gas a condizioni favorevoli. L’incontro ha confermato l’interesse di entrambe le parti a rafforzare un legame economico già molto stretto.
Sul fronte politico-diplomatico, il 25 aprile, il ministro degli Esteri serbo Marko Đurić ha incontrato l’ambasciatore russo Aleksandr Bocan-Kharchenko, ribadendo i legami culturali e spirituali che uniscono i due Paesi. Đurić ha inoltre ricevuto un messaggio di congratulazioni da parte del suo omologo russo Sergey Lavrov per la sua riconferma a capo della diplomazia serba.
Oltre agli storici e profondi legami con Mosca, anche la Cina ha rafforzato la sua presenza economica in Serbia. Gli investimenti in infrastrutture, logistica, trasporti e tecnologie 5G si sono intensificati. Il 14 marzo 2025, la ministra dell’Economia Adrijana Mesarović ha presenziato alla partenza del primo container di prodotti serbi verso il mercato cinese, celebrando l’evento come un traguardo della “ferrea amicizia” tra i due Paesi.
Questo doppio asse di relazioni con Mosca e Pechino colloca oggi la Serbia in una posizione di equilibrio precario tra aspirazioni europee e legami con potenze spesso alternative all’ordine euro-atlantico.
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Questo doppio asse di relazioni con Mosca e Pechino colloca oggi la Serbia in una posizione di equilibrio precario tra aspirazioni europee e legami con potenze spesso alternative all’ordine euro-atlantico. Una tale ambivalenza genera crescente diffidenza a Bruxelles, soprattutto tra quegli Stati membri particolarmente attenti al rispetto delle alleanze strategiche e dei valori comuni. In definitiva, il dilemma serbo è tanto geopolitico quanto identitario: scegliere se ancorarsi al progetto europeo o continuare a oscillare tra sfere d’influenza concorrenti.
Per un’analisi più completa, va tuttavia evidenziato che all’interno della stessa Unione Europea esiste una componente non marginale di governi e opinioni pubbliche contrarie a qualsiasi ulteriore allargamento, indipendentemente dal comportamento della Serbia nei confronti di Mosca. In questo senso, la riluttanza all’ingresso di Belgrado riflette anche un più ampio scetticismo verso l’idea di un’Europa sempre più estesa, che rischia di accentuare divisioni interne anziché rafforzare la coesione del progetto europeo.
Kosovo: il dossier irrisolto
Il nodo del Kosovo rimane una delle principali criticità. La normalizzazione dei rapporti con Pristina è ancora lontana, e pesa sull’intero processo di adesione all’UE. Il 25 aprile 2025, il governo serbo ha adottato una misura per fornire assistenza economica straordinaria ai cittadini serbi detenuti nelle carceri kosovare, sollevando preoccupazioni nelle capitali europee.
Contemporaneamente, l’inviato speciale dell’UE Peter Sorensen ha proseguito la sua missione diplomatica a Belgrado, incontrando il ministro Đurić, il ministro per l’integrazione europea Nemanja Starović e il capo negoziatore Petar Petković. Sorensen, in un messaggio pubblicato su X, ha parlato di “discussioni costruttive” e della necessità di rilanciare concretamente il dialogo.
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Tuttavia, la questione kosovara non riguarda solo il rapporto bilaterale, ma rappresenta un vero e proprio banco di prova geopolitico per la credibilità della sicurezza europea, considerata l’importanza che riveste il Kosovo in tutto lo scenario di sicurezza dei Balcani.
La variabile Republika Srpska
Ad aggiungere ulteriori complessità vi è la situazione nella Republika Srpska. Il presidente Milorad Dodik, dopo la sua visita in Serbia il 13 aprile, prosegue in un’agenda politica che mette a rischio l’ordine costituzionale della Bosnia-Erzegovina. Da anni, Dodik alimenta una retorica secessionista volta a rafforzare l’autonomia della Republika Srpska, spingendosi fino a ipotizzare la possibilità di una secessione unilaterale. Tale orientamento mina l’equilibrio istituzionale stabilito dagli Accordi di Dayton del 1995, che rappresentano il pilastro della pace e della stabilità nella regione balcanica. La sua strategia si fonda sulla progressiva erosione delle competenze dello Stato centrale bosniaco, in favore di una crescente indipendenza dell’entità serbo-bosniaca.
Questa deriva centrifuga trova da tempo una sponda politica e diplomatica in alcune frange del potere serbo, che, pur non sostenendo apertamente l’idea secessionista, mantengono un atteggiamento ambiguo e spesso tollerante nei confronti di Dodik. La collaborazione economica, i frequenti scambi istituzionali e l’allineamento su alcune posizioni chiave rafforzano il sospetto, in parte fondato, che Belgrado consideri la Republika Srpska come uno strumento di influenza strategica nei confronti della Bosnia-Erzegovina.
Il comportamento di Belgrado verso queste spinte centrifughe è osservato con crescente preoccupazione da Bruxelles e Washington, che temono una destabilizzazione dell’intera regione.
Un’adesione senza entusiasmo?
A differenza di altri Paesi post-comunisti, dove l’integrazione europea è percepita come un approdo identitario necessario e urgente, come dimostrano le proteste filo-europee esplose in Georgia nel 2025, in Serbia il sentimento europeista appare frammentato e debole. Una differenza significativa risiede nel contesto geopolitico: la Georgia vive sotto la costante minaccia di un’aggressione russa e guarda all’Europa come a un’ancora di salvezza, prima ancora che come a una scelta politica.
La Serbia, al contrario, non percepisce alcuna minaccia da Mosca anzi, intrattiene con la Russia rapporti storici e privilegiati e porta ancora il ricordo del bombardamento NATO del 1999, che ha lasciato un’impronta profonda nell’immaginario collettivo. In tale cornice, l’adesione all’Unione Europea, dopo oltre un decennio di negoziati, non viene vissuta come una meta condivisa, ma piuttosto come un processo tecnocratico, spesso percepito come imposto dall’esterno più che nato da una domanda sociale interna.
Le manifestazioni registrate tra marzo e aprile 2025 a Belgrado e Novi Sad, pur animate da studenti, movimenti civici e intellettuali, non hanno raggiunto l’intensità o il coinvolgimento europeista osservato a Tbilisi. Ciò è il segno di una mobilitazione sociale ancora limitata e di un entusiasmo che fatica a radicarsi nelle fasce più ampie della popolazione.
Secondo un sondaggio dell’Istituto per gli Affari Pubblici di Belgrado (marzo 2025), solo il 42% dei cittadini si dice favorevole all’ingresso nell’UE, con un calo di sette punti rispetto al 2022. Parallelamente, circa il 30% considera la Russia un partner geopolitico più affidabile, mentre tra i giovani cresce l’interesse verso la Cina, vista più in chiave economica che politica. L’erosione del sostegno europeo è alimentata non solo da considerazioni geopolitiche, ma anche da una diffusa sfiducia nei confronti delle istituzioni europee, percepite come lente, burocratiche e talvolta incoerenti nell’approccio ai Balcani occidentali.
Questa distanza si riflette anche nei media mainstream, che spesso dipingono la UE come un interlocutore esigente e distante, impegnato a dettare condizioni rigide senza offrire garanzie concrete di integrazione. Al contrario, Russia e Cina emergono nel discorso pubblico come alleati pragmatici, disposti a investire senza porre condizioni politiche stringenti, consolidando l’idea di alternative geopolitiche meno vincolanti.
In questo scenario, la Serbia tende a rappresentarsi come una sorta di “piccola Russia” nei Balcani: una potenza regionale convinta di poter esercitare influenza politica e culturale sui Paesi limitrofi, soprattutto laddove siano presenti minoranze serbe, come in Kosovo o in Bosnia-Erzegovina. Un simile approccio, che talvolta include anche strumenti di pressione militare o diplomatica, risulta difficilmente compatibile con l’ingresso nell’Unione Europea, che richiede una piena adesione ai principi della sovranità degli Stati e della stabilità regionale.
In conclusione, la dicotomia tra l’orientamento ufficiale del governo, che continua a ribadire l’obiettivo strategico dell’integrazione europea, e i sentimenti popolari, sempre più tiepidi e divisi, rischia così di minare la coerenza della strategia serba. In assenza di una forte spinta sociale a favore dell’adesione, Belgrado potrebbe trovarsi sempre più in una posizione ambigua, incapace di compiere scelte definitive e costretta a oscillare tra più poli di influenza, aggravando il senso di stallo che caratterizza il processo di allargamento.
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