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La UE tra potenza e geografia: oltre le sfere d’influenza

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 A 75 anni dalla “dichiarazione Schuman” (9 maggio 1950), nella quale l’allora Ministro degli Esteri francese lanciò l’idea della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, l’Europa deve nuovamente fare scelte difficili in campo economico-industriale, istituzionale, e di sicurezza.

Nell’immaginare l’assetto futuro del continente (e in particolare della UE) è utile ripercorrere il tradizionale dibattito tra “Europa Spazio” ed “Europa Potenza”, che ricorre dagli albori dell’integrazione europea. Ciò può aiutare a tenere in conto una questione di scala che viene troppo spesso sottovalutata, cioè come viene determinata nei due scenari la dimensione geografica del “soggetto europeo” e quanto essa influisce sul suo ruolo internazionale.

L’Europa e la sua prossimità geografica (1847).

 

Chiarire il dibattito sull’Europa “larga”

Ci sono due fonti di confusione che hanno annebbiato questo dibattito. In primo luogo, si è identificata l’opzione “spazio” (Europa allargata) con un mercato unico dotato di “economie di scala”, cioè con una visione quasi tutta economico-commerciale che avrebbe sacrificato la coesione politica alle esigenze di mercato; di contro, si è identificata l’opzione “potenza” con un’Europa ristretta, fortemente coesa ma inevitabilmente limitata nella sua estensione geografica.

In questa dicotomia, l’errore di valutazione sta nel pensare che un assetto ristretto garantirebbe un processo decisionale più agevole; ma, nella realtà, quante volte sono stati davvero o membri di dimensione (relativamente) media o piccola a ostacolare davvero una decisione che vedeva d’accordo tutti i membri più grandi? In effetti, su quasi ogni scelta importante sono proprio le divergenze tra i (relativamente) grandi a bloccare l’Unione, con la formazione di “minoranze di blocco” grazie al contributo di alcuni medio-piccoli. Se è così, però, il problema di fondo non sta nella regola dell’unanimità, e dunque non è l’assetto ristretto o allargato a fare la differenza. Lo conferma, tra l‘altro, l’esperienza di questi anni post-Brexit, in cui – nonostante le legittime aspettative di molti europeisti – non si è visto uno slancio “integrazionista” irresistibile in nessuno dei settori più delicati, e si sta anzi cercando (saggiamente) di riagganciare in qualche modo la Gran Bretagna con intese apposite.

Una seconda fonte di confusione nel dibattitto sugli assetti europei deriva proprio dal rapporto tra economia e sicurezza. Si è spesso pensato che l’economia richiedesse una spinta verso l’allargamento, mentre la sicurezza andasse lasciata a gruppi ristretti (perfino ad hoc, in formati variabili). In effetti, i due campi di azione sono sempre più intrecciati e vanno gestiti in tandem: lo ha reso drammaticamente evidente la questione ucraina, soprattutto quando un Accordo di Associazione negoziato tra Bruxelles e Kiev nel 2014 ha provocato la prima invasione russa del Paese vicino – visto che quell’accordo era chiaramente considerato un atto politico-strategico da Mosca. Inoltre, l’allargamento della UE è percepito come una parziale garanzia di sicurezza territoriale dai Paesi candidati o aspiranti; una garanzia non assoluta, e idealmente da completare con l’adesione alla NATO, ma pur sempre una scelta con implicazioni anche di sicurezza e difesa (peraltro, a norma di Trattati UE).

 

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Nel complesso, la presunta contrapposizione tra Europa Spazio ed Europa Potenza è ingiustificata, e tra le due opzioni c’è quello che potremmo definire “Europa di taglia grande”: è l’opzione più realistica, che può superare i maggiori problemi di entrambe le classiche alternative. Il limite dell’Europa Potenza, nella sua accezione originaria e intesa in termini rigorosi, è proprio il suo essere ristretta, cioè un nucleo duro (con attorno una sorta di periferia, un secondo cerchio relativamente “molle”).

E’ dunque, per definizione, un’Europa “piccola”, che non sfrutta appieno il potenziale dimensionale dell’aggregazione di nuovi Paesi, in cambio di una (teorica) maggiore coesione tra i suoi membri. Di contro, l’Europa Spazio rinuncia a una dose di coesione per farsi larga, ma così neppure essa sfrutta appieno – per un altro verso – il potenziale dell’aggregazione, almeno fintanto che non elabora qualche meccanismo per generare consenso in vista di un’azione coerente.

L’Europa di grande taglia può offrire una soluzione, politica prima ancora che geografica o funzionalista. La definizione del perimetro deriva infatti da una visione condivisa dei maggiori interessi strategici, e l’allargamento è esso stesso una politica estera, per quanto limitata ad aree contigue. La tendenza ad ampliare il numero dei Paesi membri riflette una capacità di attrazione, non una falla del sistema o un costante rischio di allentare le maglie.

 

Più che “autonomia strategica”, azione efficace.

E’ istruttivo, in quest’ottica, ripensare anche al dibattito sulla cosiddetta “autonomia strategica”. Il concetto, che dal 2013 ad oggi è stato definito e ridefinito in modo oscillante proprio perché ha privilegiato, in momenti diversi, specifici criteri di aggregazione[1], ha sempre lasciato in secondo piano l’estensione geografica della UE e la graduale espansione della sua capacità di esercitare influenza. Ma questa ambizione richiede per prima cosa la piena volontà di rafforzare l’azione comune.

Senza voler affatto nascondere le carenze dell’azione esterna dell’Unione e le grandi sfide che essa deve fronteggiare, dal Mediterraneo-Medio Oriente ai Balcani Occidentali, dal Mar Nero al Baltico, si deve anche riconoscere che quando gli organi UE vengono aggirati e quasi snobbati nei rapporti internazionali ciò accade anzitutto a causa degli stessi singoli governi dei suoi membri, che si rendono in sostanza complici di un’operazione di indebolimento verso Bruxelles con le loro iniziative nazionali.

Dunque, una “Europa di taglia grande” avrà certamente bisogno di un meccanismo decisionale che combini scelte nazionali e impegni collettivi, per evitare i rischi di paralisi ma anche di un’eccessiva lentezza deliberativa. Eppure, prima ancora che modificando i sistemi decisionali questo obiettivo va perseguito prendendo sul serio le clausole dei Trattati che già sono in vigore da molti anni, tra le quali l’obbligo di consultazione su qualsiasi tema di possibile interesse comune (difficile sostenere che vi siano temi di politica internazionale al di fuori di questa definizione) per un effettivo coordinamento delle azioni diplomatiche. In altre parole, a norma dei Trattati la solidarietà in politica estera è un obbligo, non una semplice opportunità opzionale[2].

Invece che di “autonomia” (essendo qui il termine “strategico” pleonastico) si dovrebbe allora meglio parlare di una “capacità di agire efficacemente”; è questa la condizione necessaria per esercitare influenza sull’ambiente esterno, e nasce interamente dagli assetti interni, cioè dalla continuità e intensità con cui si rispettano gli impegni reciproci tra Paesi membri. La relativa autonomia rispetto ad alleati e avversari (in un mondo che rimane fortemente interdipendente per mille ragioni) è semmai una conseguenza indiretta dell’efficacia, e si conquista sul campo delle capacità effettive, non su quello delle dichiarazioni di intenti.

 

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Il punto è che se i maggiori interessi strategici (non necessariamente tutti gli interessi) sono espressamente condivisi in un modo che venga reiterato dai leader nazionali nel comunicare con le proprie opinione pubbliche, una stretta cooperazione e una forte integrazione diventano parte di un trade-off pragmatico tra sovranità nazionale – troppo “piccola” per fare la differenza nel XXI secolo – e azione europea – che beneficia anche della dimensione geografica e demografica e del peso economico della UE.

In questo processo di formazione del consenso in un’ottica “larga”, non ci si deve far abbagliare da due ricorrenti errori di prospettiva: il presunto contrasto interessi/valori, e la mistica della sovranità che sembra essere tornata di gran moda.

Soprattutto sul tema dell’allargamento a nuovi membri, si adotta spesso l’assunto per cui l’adesione sarebbe una specie di concessione che tutto sommato danneggia la presunta coesione europea. In realtà non c’è alcun motivo, perfino nella più gretta interpretazione della Realpoltik, per cui aggregare nuovi Paesi che vogliano entrare in un’area fortemente integrata e legalmente regolata dovrebbe essere una scelta puramente “idealista”. L’allargamento implica comunque dei trade-off, ed è una scelta al tempo stesso pragmatica e valoriale: nulla di strano in questa combinazione. Sul lato opposto dello spettro, sembra a volte che la UE non possa dotarsi di strumenti militari senza violare la sua vocazione pacifica: si dimentica qui ogni politica di difesa è la difesa di una politica, a sua volta fatta di interessi e valori. Anche la politica di difesa vive di trade-off, per la UE come per chiunque altro: i leader politici sono eletti precisamente per fare queste scelte.

L’altra questione che negli ultimi anni è emersa in primo piano è quella della “sovranità” europea, come attributo (assente nella UE, secondo molti critici) che sarebbe indispensabile per poter agire in un mondo sempre più competitivo. In questa visione quasi mistica delle entità “sovrane”, si dimentica che la sovranità non esiste in natura e dunque non è un’essenza immutabile: è invece un’invenzione politica e giuridica, fatta di gradazioni e aree grigie, che può essere adattata alle circostanze. La sovranità a cui la UE può aspirare è un costrutto di tipo nuovo, che nasce dall’ibridazione di esperienze nazionali plurisecolari e che deve oggi inserirsi in un contesto globale in parte diverso da quello della metà del XX secolo in cui è stato avviato l’esperimento dell’integrazione.

 

Oltre le sfere d’influenza

Un approccio innovativo alla coppia “Spazio/Potenza”, che punti proprio sulla dimensione attuale e sulla possibile espansione graduale, pone in una luce diversa anche lo strano ritorno in auge delle “sfere d’influenza” che sembra accomunare la Cina governata dal Partito unico, la Russia che Vladimir Putin guida da ormai un quarto di secolo, e gli Stati Uniti sotto la seconda presidenza Trump.

Va ricordato che, nella vasta letteratura storica e teorica su questo tema, una sfera d’influenza si distingue per il suo carattere fortemente asimmetrico, gerarchico e piuttosto apertamente coercitivo, per cui una potenza esterna impone la propria volontà ad attori più deboli, anche in modo da escludere altre potenze dalla medesima area. Questo punto deve essere chiaro, ad evitare una grande confusione con il concetto di alleanza formalizzata che è incarnato nella NATO – dove le asimmetrie di potere ci sono eccome, ma sono orientate verso forme cooperative e regolate proprio dagli accordi politici, su valori e interessi, che ne sono il fondamento. La stessa Unione Europea aggrega Stati di dimensioni assai diverse tra loro, ma non ha caratteri imperiali e non si basa sulla politica di potenza.

Non a caso, l’apogeo delle sfere d’influenza è stato il periodo coloniale, ma non sembra affatto che la UE voglia oggi imbarcarsi (nuovamente) in un’impresa del genere; e in realtà non ne ha alcun bisogno, perché ha già un modello migliore e più funzionale. Di fatto, la UE è proprio un’alternativa, anzi perfino l’antitesi, rispetto alle classiche sfere d’influenza: esercita una forte attrazione nei confronti dei suoi vicini, invece di spingerli a trovare alleati per controbilanciarla. C’è insomma una notevole differenza tra dover gestire faticosamente le procedure di adesione fissate da Bruxelles per gli aspiranti membri, da una parte, e dover rispondere alle dichiarazioni a sfondo territoriale del Presidente degli USA a proposito di Panama, Groenlandia, Canada, Gaza, dall’altro. Le prime saranno pure molto frustranti, ma le seconde sono una minaccia diretta e una violazione palese di norme consolidate.

 

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Il paradosso è che l’Unione Europea viene spesso accusata di non essere al passo con i tempi proprio a causa della sua struttura interna e della sua architettura “mobile”; eppure, si sente altrettanto spesso affermare che soltanto Stati di dimensioni quasi-continentali abbiano in mando il futuro del mondo.

Si potrà notare che la UE non è pienamente uno Stato (nel senso weberiano del termine), ma ciò che conta è dove il potere si concentra e si articola, e quanto l’estensione geografica corrisponda ad aree in cui si applicano efficienti accordi politici ed economici.

In questo senso la costruzione europea non è certo perfetta – nessun costrutto umano lo è – ma è magari un compromesso accettabile, decisamente migliore delle esplicite ambizioni imperiali di Trump, delle isole artificiali edificate dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale, e delle truppe di invasione russe nell’ex-impero sovietico.

 

 


[1] Si veda su questo punto: Marta Dassù e Roberto Menotti, “Interessi nazionali e interessi europei: l’Unione Europea come attore internazionale”, in Europa tra presente e futuro, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2024.

[2] In particolare, l’art.24 recita tra l’altro che gli Stati membri “si astengono da qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione”.

 

 


Qui l’intero dossier New Geoeconomics #8