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Turchia e Iran: la linea sottile

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Con il vento di cambiamento che soffia sulla regione, la Turchia sta tentando di equilibrare il proprio interesse nazionale con il ruolo di mediatore tra i vicini. In tale contesto suscita molte perplessità il rafforzamento delle relazioni con l’Iran, basate su una fiducia che a livello politico non ha ancora prodotto risultati concreti.

Il concetto-chiave della politica estera turca sembra essere quello di stabilizzazione della regione, coerentemente con l’inclinazione assai pragmatica e pro-business dell’AKP, e i rapporti con Teheran si possono leggere in questa ottica. Come ha affermato il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, “I due paesi condividono dei legami storici molto profondi che sottolineano l’importanza di molte aree comuni in cui si possono intessere relazioni bilaterali, partendo dalla cooperazione economica fino alla sicurezza. In riferimento a questa partnership multidimensionale le relazioni turco-iraniane sono da definirsi “strategiche”[1].  In questa luce è senza dubbio un buon segno che il volume degli scambi commerciali sia cresciuto da 1.3 miliardi di dollari dal 2002 a 11 miliardi nel 2011. Tuttavia, sul fronte iraniano esistono ancora notevoli limitazioni tariffarie e doganali che frenano un’ulteriore crescita degli scambi bilaterali. A questo si sommano controversie irrisolte sui prezzi delle forniture di gas iraniano.

Proprio per rafforzare la cooperazione economica, in aprile si è inaugurata l’apertura di un terzo valico di frontiera a Kapiköy, nella parte orientale della Turchia. Si è anche tenuto un summit trilaterale tra Turchia, Iran e Azerbaigian in cui si è voluto sottolineare il diritto dei tre paesi ad utilizzare l’energia nucleare per scopi pacifici. Il tentativo turco di apertura economica verso l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, infatti, ha evidenti connotazioni politico-strategiche, poiché si salda allo sforzo di mediazione di Ankara in merito alla spinosa questione del programma nucleare iraniano. Il tema è emerso anche in occasione della conferenza dell’ONU sui paesi meno sviluppati tenutasi a Istanbul il 9 maggio scorso, in particolare nell’intervento (condito della consueta retorica anti-occidentale) del presidente Ahmadinejad, nel quale quantomeno egli ha ribadito una generica disponibilità a sedersi nuovamente al tavolo negoziale.

Il rilancio delle trattative tra l’Iran e le potenze mondiali fa seguito ad un primo fallito tentativo della Turchia di intavolare un dialogo costruttivo tra le parti, che è servito ad inasprire le posizioni occidentali e a ripristinare il serrato monitoraggio dell’AIEA sull’iniziativa iraniana.

Nel suo approccio con la spinosa questione del nucleare iraniano, Ankara si è in parte coordinata con i cosiddetti paesi P5+1 (i cinque membri permanenti più la Germania), ma non ha adottato misure sanzionatorie e ha criticato apertamente le minacce (più o meno esplicite) rivolte a Teheran dai paesi occidentali. C’è poi stato il tentativo “autonomo” (e fallito) di mediazione perseguito assieme al Brasile, nel maggio 2010, seguito da una serie di visite ad alto livello come quella del presidente della Repubblica Abdullah Gul a Teheran nel febbraio scorso. Nonostante la forte pressione esercitata da Washington per un suo rinvio, questa è stata accolta con toni trionfalistici da entrambe le parti. L’obiettivo dichiarato era creare una nuova road map congiunta appunto sulla questione del nucleare, e porre le condizioni per una maggiore apertura del mercato iraniano alle imprese turche.

Da questo episodio emerge il limite, o se si vuole il dilemma, della linea turca verso l’Iran: sebbene l’AKP insista che la sua strategia è di integrazione regionale a tutto campo (e dunque di stabilizzazione), di fatto gli accordi bilaterali con Teheran collocano la Turchia in posizione non certo neutrale. E la realtà è che Ahmadinejad esce rafforzato da queste dinamiche, e per ora fermo nella sua determinazione a sfidare la comunità internazionale. La dinamica rischia anzi di auto-sostenersi a livello bilaterale: quanto più i rapporti turco-iraniani si fanno stretti, tanto più l’establishment turco tende a coltivare Teheran come partner privilegiato per non perdere i vantaggi acquisiti. È in effetti comprensibile che Ankara consideri l’Iran come un tassello essenziale per il proprio stesso ruolo di corridoio commerciale ed energetico tra Occidente, Golfo e Asia centrale – e ciò spiega la contrarietà turca a un regime di embargo. Il problema però è che questa strategia poggia sull’assunto di riuscire a moderare il comportamento iraniano sul dossier del nucleare militare, per poi reintegrare il paese nell’economia mondiale. E questo si scontra con l’ambizione di entrambi a diventare leader regionali, a maggior ragione nella fase attuale di quasi-dissolvimento dell’ordine regionale nel mondo arabo.

Il principale interesse di Ankara, in altre parole, è quello di contenere la possibilità che l’Iran di Ahmadinejad ampli la sua influenza nel vicinato. Se è proprio il timore per il competitor a porre la Turchia nella delicatissima posizione di mediatore e interlocutore privilegiato di Teheran. Resta da vedere fino a quando Ankara potrà permettersi di distanziarsi dai suoi partner occidentali, rifiutando di ammettere la natura anche militare dei programmi nucleari di Teheran.


[1] A. Davutoğlu, dichiarazione in “Davutoğlu’s Recent Visit to Iran Higlights Ankara’s Regional Diplomacy” in Eurasia Daily Monitor, vol. 6, n. 167, 2009.