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Lo shutdown evitato – e il prezzo per i repubblicani

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Per una settimana la parola “shutdown” ha superato “guerra” nella classifica dei termini più usati dai network e dai giornali americani. La minaccia, scampata all’ultimo, di una legge finanziaria incompiuta è parte di un dibattito interno che giunge alle orecchie del popolo americano con una nota di urgenza decisamente maggiore rispetto al conflitto libico. La Libia è lontana sia in termini geografici, sia dal punto di vista dell’interesse nazionale, per quanto l’intervento militare sia stato cosparso – in modo più o meno opportunistico – di velleità umanitarie e quindi di interesse universale.

Al di là del merito economico della manovra di bilancio, il dibattito sul budget ha fatto emergere per la prima volta dopo le elezioni di midterm i termini dello scontro politico fra repubblicani e democratici, e anche all’interno degli stessi schieramenti. Quello che in tempi di bonaccia è uno fra i tanti punti dell’agenda parlamentare, in questo turbolento inizio di 2011 si è trasformato nell’occasione per tracciare con più convinzione i confini nella mappa politica dopo la tempesta perfetta con cui il GOP è tornato maggioranza al Congresso, in novembre.

Per i repubblicani è stata la prima vera occasione per misurarsi non solo con uno dei punti del programma di novembre, ma con la loro stessa ragione sociale, quella che ha creato così tante divisioni interne al partito e ha generato il fenomeno del Tea Party. Dopo le elezioni di novembre, a destra sono stati mesi di relativa calma: i mesi in cui Sarah Palin è andata scomparendo dalla scena politica e questi sono i giorni in cui l’anchorman e agitatore di folle Glenn Beck lascia Fox News, un divorzio che rappresenta la fine simbolica di una narrativa politica di fermento conservatore, con i suoi pregi e i suoi istrionici difetti. È stato il tempo di John Boehner, lo Speaker della Camera che sta cercando una mediazione fra le fasce oltranziste che chiedono tagli profondi, indiscriminati e immediati alla spesa pubblica (in alcuni casi anche a discapito del Pentagono, fatto inedito per i repubblicani) e la corrente più moderata da cui lui stesso proviene.

Alla prova dei fatti, il GOP sta dimostrando di avere ancora molta strada da fare per potersi considerare un vero partito. La proposta di budget scritta dal deputato Paul Ryan – con l’aiuto della Heritage Foundation – è stata battezzata “path to prosperity”, e con i suoi oltre sei mila miliardi di dollari di taglio alla spesa pubblica nei prossimi dieci anni è stata assunta dal GOP come linea ufficiale. Ma questo non significa che i ranghi del partito siano davvero serrati. Il Republican Study Committee – organo che dagli anni Settanta raccoglie decine di deputati conservatori alla Camera, e che è oggi guidato da Jim Jordan, dell’Ohio – ha scavalcato a destra l’ambizioso progetto di Ryan, offrendo un’alternativa radicale per risolvere il problema del debito pubblico: il piano prevede di portare la spesa pubblica dai 409 miliardi di dollari del 2012 a 218 miliardi nel 2021, senza toccare i soldi della difesa. “Dobbiamo fare ulteriori tagli, perché l’alternativa è il fallimento dello stato”, ha detto Jordan.

Allo stesso modo il Tea Party esercita la sua pressione politica sull’ala moderata del partito, tanto che Boehner ha ritenuto opportuno dare un’intervista al network ABC per spiegare che “non c’è nessun attrito fra me e il Tea Party”: i programmi e le idee coincidono, dice Boehner. Resta il fatto che, se la guerra sul budget è finita dritta in un pantano politico per il versante conservatore, è anche a causa delle divisioni fra i repubblicani. Il Washington Post ha messo a fuoco il paradosso di un universo conservatore che per vincere le elezioni di midterm ha ceduto alle richieste della sua componente più arrabbiata, e ora non può permettersi il lusso di un compromesso con i democratici: ciò sarebbe ormai controproducente nell’ottica di rafforzare il patto con gli elettori. Il partito di Boehner è in qualche modo ricattato dalla sua stessa anima multiforme e dal suo attaccamento a un radicamento locale guadagnato a scapito dei democratici con sforzi enormi.

Nei giorni del dibattito sullo shutdown non è stato ricordato abbastanza quello che è successo nell’autunno del 1990, quando la Casa Bianca di George H.W. Bush non riuscì a trovare un compromesso sulla finanziaria. Il governo rimase “chiuso” per tre giorni, dopodichè 41 parlamentari fecero ricorso al proprio senso di responsabilità (qualcuno si sarà anche turato il naso) e accettarono un compromesso per approvare il budget. Nel 1990 furono così evitati disagi per i cittadini e fu risollevata l’immagine del paese rispetto alla percezione di una politica pasticciona, incapace di anteporre gli interessi generali ai calcoli di parte. Il problema è che nessuno di quei 41 parlamentari fu rieletto un mese più tardi alle elezioni di midterm.

Il compromesso raggiunto poche ora prima dello shutdown fra repubblicani e democratici è una soluzione moderata e temporanea che potrebbe avere costi politici inaspettati per il GOP. E con la campagna presidenziale alle porte, l’ultima cosa che i repubblicani vogliono è perdere credibilità presso il proprio elettorato, per aver stretto la mano tesa del presidente.