international analysis and commentary

I veri messaggi britannici all’Europa

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Lo spazio della prevedibilità, della noia, della stabilità; il luogo di un lento declino dorato: chi nei decenni passati si sia dedicato – dagli analisti politici agli scrittori di fantascienza – a immaginare il futuro dell’Europa, lo ha disegnato quasi sempre così. L’Asia, l’America, l’Africa: in quei continenti si sarebbero concentrati le novità e i cambiamenti, e lo spirito vitale del pianeta avrebbe prodotto i suoi frutti. All’Europa – Vecchio continente di nome e di fatto – sarebbe restata la contemplazione della propria anzianità.

La cosa sarebbe passata per la nascita di un’unione politica e l’introduzione di una moneta unica: le due tappe che avrebbero permesso agli europei di raggiungere equilibrio e autosufficienza, e chiudere le porte alle incertezze del mondo, per non esserne più disturbati.

A rispettivamente 24 e 15 anni da quei due avvenimenti (l’Unione Europea nacque nel 1992, l’euro nel 2001), quella predizione è andata in pezzi e il suo crollo è stato davvero fragoroso. Intanto, al di là delle sue frontiere i conflitti si sono moltiplicati; tra le cause principali, non l’incapacità politico-istituzionale dei paesi limitrofi, quanto l’incapacità dell’Europa di costruire un sistema diplomatico e di sicurezza adeguato alla necessità del momento. Cioè quella di sostituirsi alla tutela che gli americani esercitavano su tutta la regione a est ma anche a sud del nucleo dell’integrazione comunitaria.

Né ha funzionato la “copertura” che la UE ha cercato di offrire: le molteplici crisi se ne infischiano dei confini teorici e delle regole che si danno i 28 stati dell’Unione. La dipendenza economica dalla Russia, il contagio della crisi finanziaria americana, gli enormi flussi di rifugiati e di migranti che vengono dall’Africa e dall’Oriente, il terrorismo islamista: questi quattro fenomeni molto diversi tra loro, di cui gli stati europei hanno tentato di disfarsi con risultati altalenanti, e a volte davvero scarsi, hanno in comune una cosa. Dimostrano l’interdipendenza del continente – in tutte le sue parti – con quello che succede fuori, con i grandi processi politici, economici e sociali del mondo.

Tuttavia, parte dell’opinione pubblica europea rifiuta questo punto di vista. E, come sempre nella storia del continente, una classe di personaggi politici irresponsabili è immediatamente apparsa per trarre vantaggio da questo sentimento. Il dibattito sulla permanenza o meno del Regno Unito all’interno dell’UE, comunque complesso in molti suoi aspetti a cominciare dalla peculiarità dell’antico euroscetticismo inglese, non ne è certo rimasto estraneo.

Secondo alcuni teorici del Brexit, una Gran Bretagna slacciata da ogni obbligo ritroverebbe la sua antica proiezione internazionale – quella dei secoli dell’Impero – non dovendo dipendere dai capricci politici di Bruxelles. Risolverebbe la questione dell’immigrazione liberandosi in un colpo solo di chi sfruttando la libertà di movimento garantita dall’UE si trasferisce sul suo territorio da dentro l’Europa, e di chi sfruttando il lassismo e la mancanza di controlli altrui arriva fin sulla Manica da fuori dall’Europa. Ravviverebbe vantaggiose relazioni economiche con la Cina, la Russia, gli Stati Uniti, non dovendosi preoccupare della legislazione sociale dei 27 colleghi. Risanerebbe il suo bilancio non essendo più costretta a versare esosi contributi al bilancio dell’Unione.

In poche parole, come sintetizzò nel luglio 2013 una famosa copertina del The Sun – il quotidiano più diffuso del Regno Unito, con oltre 5 milioni di lettori, e apertamente euroscettico – This is our Britain: un territorio verdeggiante, un paese attraente, uno stato che coniuga con successo tradizione e contemporaneità, grazie alla forza congiunta di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord. Di tenore molto più virulento, seppure con lo stesso contenuto, i messaggi dei due campioni del Brexit: il conservatore Boris Johnson, ex sindaco di Londra, e il nazionalista Nigel Farage, leader dello United Kingdom National Party (UKIP).

Nessuno è davvero in grado di dire quale sarebbe il destino del Regno Unito se si staccasse dall’Unione Europea; facile prevedere una serie di problemi immediati, dovuti all’emigrazione del mondo imprenditoriale e finanziario, agli scossoni per l’uscita dal mercato comune, al peggioramento del bilancio pubblico per la diminuzione delle entrate, e forse alla secessione della Scozia e di altre parti del regno. Ma all’isolazionismo romantico su cui si può anche ironizzare non deve fare da contraltare un altrettanto assurdo narcisismo europeista: non dimentichiamo che anche fuori dall’UE si può prosperare.

Tuttavia, è un altro l’errore da cui, come europei, dobbiamo provare a tenerci lontani: sarebbe sbagliato sostituire l’idealizzazione del futuro compiuta nei decenni passati – proprio quella che ci ha portato a immaginare per l’avvenire un’Europa “senza storia”, che la realtà di oggi travolge – con l’idealizzazione del passato, che compiamo in un presente che non ci piace, che ci preoccupa. Senza l’integrazione europea, si dice, i popoli e gli stati sarebbero ancora wild and free come un tempo, padroni del loro destino.

Non serve qui notare quanto sia fuorviante questa visione – se c’è qualcosa di cui gli europei non possono essere orgogliosi sono proprio le conseguenze di quel passato “glorioso”. Come governare, allora, un continente che prova questo stato d’animo? Come evitare che il malessere, il dissenso che si manifesta per ragioni anche diverse – le settimane di scioperi in Francia o in Grecia, il voto xenofobo, le spinte secessioniste, la disintegrazione nello spazio di un anno di vecchi partiti e classi politiche – finisca per trasformarsi nell’unica narrazione che l’Europa fa di se stessa, e per alimentare la spinta alla distruzione della costruzione comunitaria messa in piedi finora?

È vero: l’Unione Europea incompleta e inefficiente costruita finora merita effettivamente di essere superata con una profonda riforma: ma, scartato il ritorno al passato, il punto è quale direzione seguire. Alla fine degli anni ’70, lo scrittore francese Philippe Curval, nella trilogia L’Europe après la pluie, immaginò un’Europa che per proteggersi dal mondo esterno avrebbe deciso per referendum la chiusura ermetica di tutte le sue frontiere, espellendo tutti gli abitanti di origine straniera che vivevano all’interno, e puntando sulla superiorità tecnologica per farcela da sola. Un esecutivo segreto si sarebbe incaricato del governo, mentre una popolazione chiusa in se stessa avrebbe abbandonato piano piano la vita in comune, per godersi il proprio benessere nelle case, in un’interminabile scansione di tempo rallentato.

Una visione che sembrò irreale all’epoca, ma che non lo sembra oggi. Qual è l’alternativa? Per affrontare adeguatamente la complessità globale, le istituzioni attuali non bastano: dobbiamo dotarci di una struttura politico-diplomatico-militare basata su principi costituzionali originali, e della consapevolezza che agire nel mondo avrà dei vantaggi (influenzare i processi invece di subirli, ad esempio) ma anche dei costi.

Appurato infine che la ripresa economica non verrà a correggere le sue mancanze, la classe politica che governa l’Europa non può ridursi ad accettare uno stillicidio quotidiano dal quale, ogni volta, spera di uscire indenne: l’accordo con la Turchia sui rifugiati s’è raggiunto a caro prezzo, le elezioni in Austria sono andate bene per un soffio, ma domani? Se Brexit sarà, si usi l’eccezionalità dell’avvenimento per raccogliere il coraggio necessario ad avviarsi sulla strada delle riforme. Altrimenti, lo si faccia lo stesso: certamente non possiamo permetterci di pensare che l’inerzia adottata finora sia una valida risposta.