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Il fattore nucleare nel nuovo Giappone di Abe

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Il dossier del nucleare civile costituisce da tempo il più evidente punto di divaricazione tra la politica del governo Abe e l’opinione pubblica giapponese così come viene definita dai sondaggi. Ma il quadro ora sembra destinato a complicarsi perché il rifiuto di dotarsi di armi atomiche – fin dagli anni ’60 fonte di polemiche – appare un tabù ormai logoro. Tra i due problemi non esiste una correlazione diretta, se si esclude l’ambizione del Giappone di realizzare il ciclo chiuso del combustibile nucleare, che comporta la creazione di scorte di plutonio teoricamente usabile anche a scopo militare.

Ma in un modo o nell’altro i timori del dopo-Fukushima finiscono col convergere sul principale obiettivo politico-strategico dell’attuale maggioranza: la revisione della Costituzione e in particolare delle sue clausole pacifiste più stringenti (articolo 9). Un obiettivo che si carica di significati impensabili fino a ieri a causa degli input provenienti dalla campagna elettorale negli USA, con Donald Trump che definisce inevitabile la proliferazione nucleare e ipotizza un Giappone trasformato in potenza atomica militare.

Non è escluso che la decisione di Barack Obama di recarsi a Hiroshima il 27 maggio – passo mai compiuto da un presidente americano in carica – sia stata favorita, dopo tante esitazioni, proprio dalla necessità di ridare equilibrio ad un quadro strategico sempre più confuso. Come ha commentato Foreign Affairs, il momento non poteva essere più opportuno, considerando anche la sfida lanciata dalla Corea del Nord coi nuovi test nucleari e la difficoltà di dialogare con la Cina a proposito del Mar Cinese Meridionale. La parola d’ordine del “mondo libero da armi nucleari”, che Obama non mancherà di ripetere a Hiroshima, dovrebbe avere infatti il concreto effetto di rilanciare gli sforzi della Casa Bianca per tenere sotto controllo la proliferazione nucleare che nel quadrante estremo orientale traballa più che altrove. Almeno servirà a chiarire che bisogna tenere ben distinti il maggiore impegno chiesto al Giappone in materia di sicurezza e il mantenimento di un assetto regionale che vede negli Stati Uniti il garante –   anche e soprattutto grazie all’ombrello nucleare offerto a Tokyo – dello status quo.

A un simile messaggio Abe Shinzo non ha nulla da obiettare, anche perché il passaggio di Obama a Hiroshima sembra confermare che anche per gli USA si chiude l’era del dopo-Seconda guerra mondiale con la sua netta divisione tra vinti e vincitori, tra aggressori e aggrediti. Suona come un appoggio alla sua linea “rivolta al futuro e non al passato” (quella che i detrattori considerano revisionista). Ed è per la stessa ragione, sia pure interpretata in modo opposto, che i cinesi hanno manifestato tutto il loro disappunto, ricordando che la pur lodevole utopia di un mondo liberato dalle armi atomiche non controbilancia i concreti pericoli alla pace prodotti da un Giappone che si atteggia a vittima dimenticando le responsabilità del suo passato militarista.

Abe ha dunque buoni motivi per essere soddisfatto. Deve però fare i conti con le sue stesse contraddizioni. Dalle polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Trump il premier nipponico ha pensato di uscire ribadendo che il Giappone resta fedele ai “tre princìpi non nucleari” enunciati nel 1967 dall’allora premier Sato Eisaku che imporrebbero di non possedere armi atomiche. Ma in risposta a una interrogazione parlamentare, il 1° aprile il governo ha messo per iscritto che, come già affermato dal governo Fukuda nel 1978, l’articolo 9 della Costituzione permette di possedere “il minimo necessario per l’autodifesa”. Ha poi precisato: “Anche se si trattasse di armamenti nucleari, la Costituzione non proibisce tassativamente il loro possesso qualora esso fosse limitato al minimo necessario”.

Su un terreno altrettanto scivoloso Abe si trova a muoversi a proposito del nucleare civile. La sua politica si basava, quando è stata concepita, sull’assunto che il Giappone non può ritrovare slancio senza l’apporto del nucleare perché il conto delle importazioni di idrocarburi è troppo salato. Per di più il ricorso massiccio ai combustibili fossili impedisce di combattere il riscaldamento globale. Pertanto, in attesa che le fonti alternative sostituiscano quelle tradizionali, non resta che rimettere in funzione le centrali nucleari, previo superamento di draconiani test di sicurezza elaborati allo scopo di evitare il rischio di una nuova Fukushima. La principale differenza rispetto al passato doveva essere rappresentata dall’istituzione di un organismo indipendente dal governo – l’Autorità per il controllo del nucleare (NRA nell’acronimo inglese) – che stabilisse i nuovi standard di sicurezza e avesse il compito di verificarne il rispetto. Ma quando si è passati dalla teoria alla pratica, non sono mancati i motivi di contrasto. Abe è stato accusato dall’opposizione di creare un nuovo mito della sicurezza come quello che esisteva prima del 2011 e di coprire gli interessi della lobby nucleare.

Il piano presentato dal ministero dell’industria nel 2015 ha poi evidenziato una deviazione “filonucleare” rispetto ai cauti presupposti originari. Questo piano infatti prevede la riapertura di tante centrali quante ne serviranno per coprire il 22% del fabbisogno nazionale entro il 2030, circa lo stesso ammontare fornito dalle fonti pulite. Più in dettaglio, 5/7 reattori dovrebbero essere attivati (sui 43 in funzione prima della triplice fusione a Fukushima) entro il 2017 per poi salire a 15 nel 2020 e a 20 nel 2024, con una produzione pari al 10 per cento del totale. E’ previsto pertanto un riutilizzo massiccio dei vecchi impianti. Ma subito dopo il disastro di Fukushima la legge è stata cambiata per introdurre la norma secondo cui i reattori possono restare in funzione al massimo 40 anni e il piano governativo del 2015 non può essere realizzato a queste condizioni. Così ci si è affidati alla postilla secondo cui, in caso eccezionale, si può concedere una proroga di 20 anni, che in aprile è stata applicata per la prima volta.

La NRA ha concesso il nulla osta per la riapertura dei reattori numero 1 e numero 2 della centrale di Takahama, distretto di Fukui, di proprietà della Kansai Electric Power Co. Interpretazione allegra della legge, sostengono gli avversari di Abe, dato che il permesso dovrebbe essere concesso solo in caso di assoluta necessità ed ora non si profila alcuna carenza di produzione di elettricità. Il dubbio di fondo è che si generalizzi la prassi di estendere l’operatività dei reattori, e che in nome dell’utilità economica (peraltro anch’essa spesso contestata poiché la bilancia valutaria è in attivo grazie al calo del prezzo del petrolio e all’aumento di entrate da investimenti esteri e turismo) si rilassino gli standard in modo silenzioso, per esempio soprassedendo alla preventiva attuazione di tutti i test di resistenza ai terremoti, visti come più probabile fattore scatenante di incidenti. Dubbi fondati visto che gli unici due reattori attualmente in funzione in Giappone, quelli di Sendai, prefettura di Kagoshima, hanno avuto il nulla osta grazie alla concessione fatta alla Kyushu Electric Power Co di non rispettare l’impegno di costruire, prima della riattivazione, uno specifico edificio antisismico da usare come base per gli interventi in caso di incidente.

Da analoghe perplessità sembrano essere state influenzate le decisioni di alcuni tribunali, che hanno finito col creare qualcosa che assomiglia a uno scontro tra potere politico, in sintonia col mondo scientifico, e potere giudiziario, più attento ad argomentazioni connesse alla valutazione del rischio sulla base del “diritto costituzionale alla vita”.

Ne stanno nascendo – commentava il Financial Times – “crescenti interrogativi sul ruolo, nella questione nucleare, dei tribunali”, dove potrebbe trasferirsi quel braccio di ferro tra pro e anti- atomo svoltosi finora nelle piazze, assai raramente gremite, e nel Parlamento, dove Abe è blindato. Difficile che a tempi brevi si trovi un punto di incontro tra i diversi approcci al nucleare. Per questo la strada che imboccherà il Giappone resta quanto mai incerta, anche perché c’è da rinegoziare l’accordo nucleare con gli Usa che scade nel 2018.