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I paesi della ex-Jugoslavia: culla di instabilità o partner indispensabile?

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Le cronache riportate dai media internazionali negli ultimi mesi hanno offerto ancora una volta, a un’opinione pubblica europea alle prese con il cliché della “polveriera balcanica”, la solita immagine dei Balcani occidentali (o per meglio dire dei Paesi dell’ex Jugoslavia). È l‘immagine di un luogo sorgente di instabilità endemica, che ha bisogno una tutela internazionale crescente per non esplodere in nuovi e pericolosi conflitti.

La regione è infatti tormentata da una nuova ondata di instabilità. Fenomeni di grande portata come l’ondata senza precedenti di profughi che ha attraversato i Balcani nel 2015 e la crescente minaccia del terrorismo islamico; e i rivolgimenti politici interni alle repubbliche di Kosovo, Bosnia Erzegovina, Macedonia e Montenegro.

Scontri e proteste hanno scosso il Kosovo dall’ottobre scorso, da quando cioè uno dei principali partiti all’opposizione, Vetevendosje! (“Autodeterminazione!”), ha cominciato a ostacolare la ratifica degli accordi siglati in agosto a Bruxelles tra Pristina e Belgrado. Questi prevedono – tra le altre cose – la formazione di una comunità autonoma delle municipalità del nord, dove la maggioranza dei residenti (di etnia serba) non vuole riconoscere la sovranità kosovara. Il braccio di ferro tra maggioranza e opposizione è degenerato. Nell’aula del parlamento, dove i delegati contrari hanno lanciato fumogeni e uova; e nelle strade di Pristina, dove più di 60.000 sostenitori di Vetevendosje! sono invece arrivati a lanciare bombe incendiarie contro il palazzo del governo. Le autorità hanno alimentato il clima di tensione arrestando tredici deputati dell’opposizione – nonostante l’immunità parlamentare – e arrivando fino ad assaltare nello scorso novembre con circa 1.200 poliziotti armati la sede del partito, allo scopo di reprimere le contestazioni e arrestare 97 attivisti.

Il momento è delicato anche per la Bosnia Erzegovina. La legislatura apertasi nel 2014 è già sfociata in un rimpasto e nella formazione di una nuova maggioranza. Nel 2016 si vota per il rinnovo dei comuni e ciò ha già riacutizzato le ostilità tra il governo centrale di Sarajevo e la Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba creata con gli accordi di pace di Dayton nel 1992. Il Presidente dell’entità, Milorad Dodik, ha attaccato direttamente le istituzioni nazionali invocando una serie di referendum: i quesiti contro la Corte Costituzionale bosniaca e contro l’autorità dell’Alto Rappresentante Internazionale – che dalla fine della guerra è la massima autorità civile, incaricata di sorvegliare il rispetto degli accordi di pace – rischiano di paralizzare ulteriormente le istituzioni.

Anche il governo di Macedonia naviga in cattive acque: a Skopje non è ancora finita la crisi iniziata nella primavera 2015, dopo lo scandalo delle intercettazioni pubblicate da Zoran Zaev, capo dell’opposizione, che ha sollevato pesanti accuse all’indirizzo del premier Nikola Gruevski. Dopo le sue recenti dimissioni nuove elezioni sono state indette, sotto gli auspici dell’UE, per il prossimo 24 aprile. Ma l’opposizione ha già fatto sapere che le boicotterà, dichiarando che non c’è abbastanza tempo per organizzare un voto libero e democratico.

A chiudere una panoramica complessa e fosca c’è il Montenegro. Qui, il “padre della patria” Milo Djukanovic, presidente e primo ministro del paese, è ininterrottamente al potere dal 1991 – è un personaggio controverso. Un think tank giornalistico che si occupa di inchieste sulla corruzione e il crimine organizzato, l’Organized Crime and Corruption Reporting Project, lo ha perfino  eletto “uomo del crimine organizzato del 2015”, in ragione del suo noto coinvolgimento nel traffico di sigarette tra Montenegro e Italia, e per la ritrosia dimostrata negli anni nel perseguire attivamente il crimine organizzato. Un particolare che però è stato tralasciato dalla Commissione Europea nel suo progress report per il 2015, nel quale si evidenziano i progressi compiuti dal Paese e lo si ritiene, nel complesso, “moderatamente preparato” a procedere verso l’integrazione nell’UE. I prossimi mesi, a ogni modo, rischiano di cambiare le carte in tavola: Djukanovic è infattiora preso tra due blocchi d’opposizione: il primo, guidato dal Fronte Democratico, chiede le sue dimissioni e nuove elezioni; il secondo, che raccoglie esponenti della destra filoserba e ortodossa, non vuole l’ingresso del Paese nella NATO – l’organizzazione ha invitato formalmente Podgorica ad aderire all’alleanza lo scorso dicembre.

In questa situazione già di per sé estremamente delicata, occorre appunto menzionare la duplice emergenza in cui i Balcani si sono trovati negli ultimi mesi, che trascende i singoli stati: da una parte il gigantesco flusso di rifugiati che dal Medio Oriente hanno scelto di recarsi in Europa lungo la cosiddetta rotta balcanica, dalla Turchia e la Grecia verso Austria e Germania. Dall’altra la minaccia della radicalizzazione islamica, con un accresciuto numero di cittadini di fede musulmana che decidono di arruolarsi nelle milizie dello Stato Islamico, presentando un potenziale pericolo per la sicurezza dei propri paesi d’origine.

Non è un caso che, a fronte di questa congiuntura, Bruxelles abbia scelto di privilegiare come interlocutori gli unici due governi della regione che paiono potersi reggere sulle proprie gambe, la Turchia di Erdogan e la Serbia di Aleksandar Vucic. In entrambi i casi, però, questo ha portato l’Unione Europea a tollerare pragmaticamente l’accresciuto autoritarismo e la riduzione delle libertà, ad Ankara come a Belgrado, nel nome della stabilità politica. Rinforzare i legami con questi due Paesi, a Bruxelles, serve anche per limitare l’influenza russa nell’area –  soprattutto nel caso della Serbia, tradizionalmente restia a rinunciare alla propria relazione privilegiata con Mosca.

In generale, è una strategia che negli ultimi anni l’Europa ha seguito con crescente pragmatismo: la stabilità è stata privilegiata a scapito, per lo meno nell’immediato, di altre considerazioni quali la tutela dei diritti umani e della democrazia. Anche leader populisti ed estremamente poco restii a utilizzare metodi autoritari nell’esercizio del potere come Milo Djukanovic e Nikola Gruevski erano, fino a poco tempo fa, dei protégé di Bruxelles, che tollerava i loro metodi in ragione della stabilità del loro potere – e della loro capacità di portare avanti delle riforme economiche nei propri paesi. E si è già detto della disponibilità della NATO ad accogliere il Montenegro di Djukanovic, a dimostrazione che un atteggiamento simile prevale anche a Washington.

Nel periodo seguito alle grandi proteste del 2014 – quando migliaia di persone scesero in piazza in tutta la Bosnia Erzegovina contro l’élite al potere, fino a incendiare svariati palazzi istituzionali, tra i quali la Presidenza – questo assunto sulle posizioni europee è diventato il modus operandi anche a Sarajevo. In effetti, Bruxelles ha momentaneamente accantonato le sue velleità di riforma politica (su tutte, l’estensione della totalità dei diritti politici anche a chi non si riconosce nelle tre nazionalità costitutive – Serbi, Bosgnacchi/Musulmani e Croati), preferendo puntare tutto su un percorso di riforma economica e sociale. Se ciò consente alla Bosnia Erzegovina di riprendere il suo percorso europeo, congelato da anni, legittima pure indirettamente le autorità e le figure politiche al potere nel Paese. Una scelta rischiosa e, per molti versi, discutibile – ma che obbedisce alla prima e più grande necessità di politica internazionale nell’area: mantenerne la stabilità.

Un compito comunque non semplice: il 2015 non è stato un anno facile per l’UE e lo è stato ancora meno per i Balcani. Tuttavia, le vicende deli ultimi mesi hanno avuto se non altro il merito di ricordare al continente quanto le proprie sorti siano saldamente legate a quelle della propria regione sudorientale. I Balcani ridiventano importanti per l’Europa, proprio in un momento in cui essi sembrano tornare un fattore di instabilità.

Bisognerebbe però osservare che essi sono, più che la fonte, la prima e più evidente vittima di queste crisi che provengono dall’esterno: il flusso incontrollato di centinaia di migliaia di rifugiati come conseguenza della guerra in Siria e della formazione dello Stato Islamico; il braccio di ferro tra Russia e Stati Uniti a seguito della crisi ucraina e della competizione in Medio oriente; la crescita della minaccia del terrorismo islamico.

Tutte queste sfide richiedono urgentemente un comune impegno internazionale. E i Paesi formatisi con la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, più che essere considerati bisognosi di una generica e indispensabile “tutela internazionale”, andrebbero visti piuttosto come partner indispensabili. Le loro capacità di governo andranno dunque consolidate proprio per poter meglio gestire questi problemi in futuro.