international analysis and commentary

Le speranze per un nuovo Nord Africa

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Sono passati oltre quattro anni dall’erompere delle aspirazioni riformiste della sponda sud del Mediterraneo – che hanno sconvolto profondamente il Maghreb spingendolo ancor più verso la democrazia, il costituzionalismo moderno, il liberalismo politico, la sovranità popolare e nazionale e, infine, verso un sistema di governo meno asimmetrico e più inclusivo e solidale. Dobbiamo però constatare, purtroppo, che è ormai la minaccia del terrorismo a incombere sulla scena.

Paradossalmente, è proprio questa minaccia – in realtà di natura globale – a restare l’unico fattore che può indurre finalmente i maghrebini a ricercare quell’unità indispensabile a un’integrazione trans-mediterranea.

Il prezzo delle rivoluzioni che hanno messo fine ai regimi dei presidenti Ben Alì, Mubarak e Gheddafi è stato non solo economico, ma anche drammaticamente umano. Peggio ancora, alle centinaia di morti dell’Avenue Bourghiba, di piazza Tahrir e dei combattimenti nelle strade di Sirte e Misurata, nuove vittime collaterali vanno ora aggiunte al triste bilancio della “Primavera araba”.

Ai 1.500 morti in Egitto, 700 dei quali tra le forze dell’ordine, all’inizio della primavera del 2014 dobbiamo sommare altre vittime nel contesto di numerosi episodi violenti: tra questi, le 17 persone decedute in seguito all’attentato contro il Caffè Argana a Marrakech nell’aprile del 2011; i 38 ostaggi uccisi durante l’attacco all’impianto per l’estrazione del gas di In Amenas nel Sahara algerino, nel gennaio del 2013; i nove morti durante l’attacco all’hotel Corinthia di Tripoli alla fine dello scorso gennaio o ancora, più recentemente, le 21 vittime dell’attentato al Museo del Bardo di Tunisi.

Inoltre, sono ormai circa 12.000 i combattenti tunisini, marocchini, algerini, egiziani che, secondo le forze di sicurezza dei loro rispetti paesi, avrebbero intrapreso la via del jihad armato in Libia, Siria, Mali e Iraq. E a questi vanno aggiunti dai 5.000 agli 8.000 giovani europei, di cui alcuni con la doppia cittadinanza. Una bomba a orologeria che rischia di esplodere da ogni parte del mare nostrum e ne compromette le attrattive e le potenzialità di sviluppo economico.

Il paradosso delle Primavere arabe
Eppure, l’immolazione del venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi aveva creato un vasto effetto domino rivoluzionario, additando al disprezzo i regimi autocratici, clientelari e corrotti a Tunisi, Tripoli, Il Cairo, per spingendosi anche oltre il Maghreb. Oggi prevale decisamente uno stato di ansia che accomuna le società della sponda Nord e di quella Sud.

Siamo di fronte, in realtà, a un paradosso strategico: vediamo da un lato il terrorismo come un fenomeno ormai radicato nel continente africano; ma dall’altro l’elezione democratica del presidente tunisino Beji Caid Esebsi nel dicembre 2014, l’approvazione di costituzioni moderne e riformiste in Egitto (gennaio 2014) e in Tunisia (febbraio 2014), la progressiva estensione delle autonomie regionali grazie alla nuova costituzione del Marocco (luglio 2011), o ancora i timidi passi avanti verso uno sviluppo territoriale più equilibrato fra centro e periferia consentiti dalla revisione della Costituzione algerina (maggio 2014).

È bene ricordare le ragioni profonde che hanno messo in moto i processi rivoluzionari e riformisti, in larga misura comuni a una vasta regione: risiedono, senza dubbio, nel divario divenuto ormai inaccettabile tra il popolo e un ultra-liberismo economico che – se non corretto – si traduce in un’oppressione collettiva più che in un arricchimento individuale. Derivano, inoltre, da un’ingiustizia sociale oggi più stridente a tutti i livelli della società. E dal comportamento di coloro che dovrebbero regolare e proteggere la vita dei cittadini, in particolare quelli che si sentono emarginati ed esclusi dallo sviluppo, come i giovani e soprattutto i neolaureati, privati dei benefici di una crescita prodotta da un’economia di rendita. Ciò testimonia anche la fragilità di un processo democratico che solo in pochi casi ha dato vita a un sistema veramente repubblicano, inclusivo, solidale ed egualitario.

Intanto, le stesse Primavere arabe hanno avuto un enorme costo economico, che alcuni stimano in quasi 600 miliardi di euro. I dati fondamentali di oggi non sono certo incoraggianti: tassi di disoccupazione sempre molto elevati (tra il 20 e il 30%, e ancor più alto tra i laureati), tassi di povertà ancora molto alti (15% in Tunisia, 40% in Egitto), caduta dei tassi di crescita annuale (dal 6% in media prima delle rivoluzioni, a poco più dell’1,5% di oggi), aumento esponenziale dei disavanzi pubblici, del peso del debito e dell’inflazione (8,6% in Egitto, 6,4% in Tunisia).

Verso un nuovo assetto Sud-Sud
Lo spirito riformista e rivoluzionario che è emerso nel 2011 ha profonde radici, africane, maghrebine, arabe e berbere al tempo stesso. E rivela anche un importante dato di fatto: il cambiamento di direzione degli equilibri strategici. Ai tradizionali rapporti fortemente squilibrati Nord-Sud sta subentrando un rapporto più flessibile Sud-Sud basato sul riconoscimento della sovranità nazionale e popolare. È questa consapevolezza il principale argomento utilizzato per legittimarsi dalle nuove classi dirigenti emerse dai processi di transizione: si tratta di trovare un’armonia fra crescita economica e realtà territoriali, ridurre gli squilibri prodotti finora dallo sviluppo e garantire al tempo stesso la sicurezza.

Parallelamente all’emergere di queste nuove realtà geo-economiche e geopolitiche, si sta già svolgendo un vivace dibattito che può superare definitivamente l’idea di un “conflitto tra civiltà” e riportare in auge una riflessione, ancora titubante ma non superficiale, tra “umanisti” e “letteralisti” (e cioè i tradizionalisti che leggono il Corano in modo letterale rifiutando ogni interpretazione più ampia e simbolica). Una cruciale discussione interna alla civiltà arabo-musulmana.

Si sta creando una netta distinzione tra due anime: da una parte, coloro che vorrebbero legare maggiormente l’Islam alle idee di “Progresso” e “Ragione”, puntando a una forma di “modernizzazione”; dall’altra, coloro che (come i movimenti salafiti) puntano a “islamizzare la modernità”. Una differenza non di poco conto, che separa le due posizioni da 15 secoli!

Per ora, l’opinione pubblica araba che ha fatto sentire la sua voce in occasione delle grandi manifestazioni del 2011 è sembrata, in una prima fase, piuttosto incline a credere che la ripresa economica e politica del Maghreb passasse attraverso gli islamisti più pragmatici.

Il fallimento dell’esperienza di governo di Ennadha in Tunisia tra il 2011 e il 2013 e dei Fratelli musulmani in Egitto (sancito dalla destituzione del presidente Mohamed Morsi nel giugno 2013) dopo un anno di gestione erratica del potere, ha cambiato profondamente la situazione. Il Marocco appare come un’importante eccezione, tenuto conto della buona gestione del governo di Abdelilah Benkirane, segretario generale del Partito Giustizia e Sviluppo (PJD), dopo la sua nomina a primo ministro da parte di re Mohamed VI nel novembre del 2011.

Nella maggioranza dei casi, comunque, sono ormai sono i “contro-rivoluzionari” ad aver assunto il controllo del potere; e le loro principali preoccupazioni sono di ordine economico.

Un recente rapporto dell’OCSE ricordava che l’instaurazione di una democrazia e di un’economia sociale, come parte di un processo veramente partecipativo, è l’obiettivo principale cui devono tendere i nuovi dirigenti politici. Solo attraverso riforme strutturali, a volte dolorose – si pensi ad esempio al numero eccessivo (150.000) di impiegati statali in Tunisia – si potrà dunque aumentare del 70% il PIL pro capite entro il 2060. Ed è soprattutto seguendo questa via che si potrà prosciugare, stabilmente, la palude della disperazione sociale alla quale attingono i populismi e gli estremismi armati.

L’intensificarsi dei rapporti Sud-Sud sembra inoltre far emergere nuove alleanze in campo internazionale che vedono Turchia, Brasile, India, Cina e gli emirati del Golfo (con il Qatar in prima fila) svolgere un ruolo importante in questi processi.

La percezione cambia profondamente se la prospettiva è quella di Washington o delle capitali europee. Gli americani continuano a vedere, infatti, i movimenti democratici degli ultimi quattro anni come espressione di una logica “socio-culturale” che comprende l’intero mondo arabo-musulmano (più o meno corrispondente ai 22 paesi che aderiscono alla Lega araba). E sembrano voler di nuovo perseguire una versione del progetto di un “Grande Medio Oriente” come negli anni di George W. Bush. Il problema è che questa vasta percezione “fusionale” e “orizzontale” del mondo islamico, che si estende da Casablanca a Karachi, ha qualcosa di artificiale e di pericoloso.

Sta dunque alla responsabilità e alla lucidità degli europei pensare secondo una logica più “verticale”, in una prospettiva euro-africana, in base alla quale lo spazio del Mediterraneo va concepito al tempo stesso come un ponte e un crocevia. Al concetto di mare nostrum conviene aggiungere pertanto quello di Sahel nostrum. Gli Stati limitrofi a questo “mare d’acqua” e a questo “mare di sabbia” devono far fronte, del resto, alle stesse insicurezze comuni, tra le quali la sfida del terrorismo è la più impegnativa.

Non possiamo comprendere, in effetti, il malgoverno di queste due aree (quella atlantico/sahelo-sahariana e quella maghrebino/mediterranea) senza prendere in considerazione le somiglianze intrinseche a queste due zone di transito e di afflusso legate alle instabilità delle rispettive aree limitrofe). È proprio questa “profondità strategica”, associata a una maggior considerazione del concetto di “sicurezza profonda”, che porta i governi a tenere maggiormente in conto le realtà concrete e le rappresentazioni non ufficiali. Lo sviluppo socio-economico, come pure la sicurezza, non possono essere concepiti isolatamente, o in una logica da “linea Maginot”.

Oggi, quella società civile nordafricana che si è espressa con forza nel 2011, e che aveva cercato a lungo uno spazio di espressione autonoma o comunque diversa, appare ormai come un vero “terzo pilastro” (accanto a quelli del potere esecutivo e legislativo). Ed è diventata un soggetto politico a pieno titolo, attraverso i concetti di sicurezza umana e territoriale, che influenzano l’esperienza quotidiana dei cittadini.

Sebbene il processo sia incompleto, in chiave ottimistica potremmo vedere in questo un percorso, finalmente consentito dall’avvento della democrazia sulle rive meridionali del Mediterraneo, di cooperazione o d’integrazione euro-africana. Se si considera l’intero continente africano, significherebbe collegare fra loro 82 Stati (i 54 del continente africano e i 28 dell’Unione Europea).

Lo spazio mediterraneo, quello africano e quello europeo sono, in effetti, bacini territoriali che dal Nord al Sud ingloberanno – da qui al 2025 – circa un miliardo e mezzo di abitanti (di cui quasi la metà di quelli del Sud avranno meno di trent’anni) e saranno caratterizzati da mercati con prospettive di crescita del 5%. Il punto di connessione cruciale di questa grande area interdipendente è il mare nostrum.

In tale ottica ci si può anche chiedere: le varie ondate di “Primavere arabe” finiranno così per risvegliare altre belle addormentate, ovvero vecchi organismi che è ormai urgente rilanciare? È questo il caso dell’Unione del Maghreb arabo (UMA), rimasta in uno stato dormiente dopo la sua creazione nel 1989, o dell’Unione per il Mediterraneo (UPM), una bella idea di cooperazione ridotta a componente meridionale della politica europea di vicinato. Ed è anche quello di un “5+5” da allargare in un “5+5+5” che colleghi i programmi latino-europei, quelli atlantico-mediterranei e quelli sahelo-sahariani, riunendo in uno stesso spazio di dialogo e di proposta i cinque paesi latini dell’UE (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Malta) con i cinque paesi del Maghreb (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia – anche se quest’ultima non sembra per ora in grado di assumere il suo ruolo) ai quali dobbiamo ormai aggiungere il Mali, il Niger, il Ciad, il Burkina Faso e il Senegal.

Siamo di fronte comunque a una grande sfida per non restare di nuovo smarriti di fronte a una realtà strategica in rapida ricomposizione. Restano molte asimmetrie ma anche degli evidenti punti di contatto, guardando alle minacce incombenti che accomunano le due sponde e ai rischi più volatili: ce lo hanno ricordato una volta di più gli attentati dell’11 gennaio 2015 a Parigi e il loro tragico “pendant” simbolico del 19 marzo a Tunisi e del 4 luglio sulla spiaggia di Sousse.

 

(Traduzione di Mario Baccianini)