international analysis and commentary

Il nesso necessario: migrazioni, frontiere e politica estera

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Le decisioni prese dai governi tedesco e austriaco per alleviare la crisi dei migranti giungono dopo un lungo percorso – non solo metaforico – che ha visto quasi tutti i possibili errori di gestione da parte europea. Ben venga questa temporanea flessibilità di fronte a una situazione che stava sfuggendo di mano, ma si tratta in realtà di un piccolo gesto rispetto a un grande problema politico che resta irrisolto: non esistono soluzioni semplici e rapide al fenomeno complesso dei flussi migratori.

In primo luogo, va sempre ribadito che i flussi migratori, anche nei momenti di “picco” numerico, non sono in realtà emergenze inattese, ma semmai gli effetti sottovalutati di fenomeni ben noti anche se distanti geograficamente. In secondo luogo, è evidente che una “crisi” migratoria è in atto da diversi anni per alcuni Paesi dell’Unione, e in particolare per alcuni punti di ingresso – basti pensare a Lampedusa; l’aumento esponenziale dell’attenzione mediatica, e la reazione governativa di molte capitali europee, sono arrivate però quando il problema ha investito direttamente prima lo stretto della Manica e poi la Mitteleuropa. Così funziona il processo decisionale nell’Europa di oggi, che piaccia o no…

Si potrebbe dire: meglio tardi che mai, se si riuscirà ora a porre le basi per una vera politica comune di gestione dell’immigrazione. Il fatto è che non basterà comunque, anche se a questo si dovesse realmente arrivare.

Dobbiamo infatti tornare al fondamentale punto oggettivo: non esistono soluzioni magiche alla questione migratoria perché essa è per definizione il risultato di gravi squilibri e di profonde trasformazioni sociali in atto su scala globale. Un’immagine – certo assai meno emotiva della foto del bambino di Kobane deceduto su una spiaggia – è molto indicativa della sfida che abbiamo di fronte: è quella di alcuni migranti seduti in terra nella stazione ferroviaria di Budapest in una sorta di rito collettivo, consistente nel ricaricare decine di smartphone. Dimentichiamo spesso la realtà del XXI secolo, in cui chiunque ha accesso alle comunicazioni e dunque alle informazioni in modo istantaneo. Sapere e vedere a distanza rende il mondo più piccolo e davvero interdipendente. Anche per questo motivo i confini non proteggono più, la crudezza delle tragedie umane non può essere nascosta, e gli strumenti adottati per respingere migranti indesiderati sono limitati dalla circolazione delle immagini senza filtro.

Cosa fare allora?

È chiaro anzitutto che, se si vuole conservare in Europa l’idea della libertà di movimento (pur con alcune limitazioni specifiche), le frontiere esterne vanno viste come comuni, e dunque la politica estera deve essere concepita e attuata in quanto “comune”, cioè a livello europeo. È davvero un caso in cui l’ideologia (europeista, antieuropeista, sovranista, post-nazionale o quant’altro) deve semplicemente lasciare il posto a un’esigenza funzionale.

È altrettanto necessario attivare un’azione di politica e di sicurezza internazionale ad ampio raggio. L’Unione Europea deve identificare, con buon anticipo rispetto agli eventi più acuti, i focolai di crisi che spingono migliaia di profughi/migranti (li possiamo definire così in prima approssimazione e collettivamente, per poi dirimere meglio i singoli casi in termini legali), per collegare prontamente gli strumenti di politica estera e di sicurezza (che ovviamente includono gli interventi di assistenza umanitaria) a quei focolai. Può sembrare una ricetta troppo ambiziosa, viste le enormi difficoltà sperimentate dalla UE nel dotarsi di una linea di azione comune nonostante gli sforzi avviati negli anni delle guerre balcaniche. Eppure, l’unica alternativa è subire passivamente gli eventi, per poi ritrovarsi comunque a dover assemblare effimere “coalizioni internazionali” come si è fatto per la Libia (con la foglia di fico della NATO) e, a più riprese, per la Siria. Proprio le più recenti dichiarazioni britanniche e francesi su un maggior impegno militare in Siria per “risolvere la crisi” (rigorosamente in ordine sparso, senza alcun coordinamento preventivo a Bruxelles) ci ricordano questo annoso dilemma: il legame tra eventi dentro le frontiere europee, subito al di fuori di esse, e in luoghi di guerre civili più o meno lontani, è un dato di fatto che non si può prendere in considerazione a singhiozzo. E prima di muoversi, militarmente o con piani di aiuti umanitari in loco di vario tipo, è essenziale raggiungere un forte e chiaro consenso europeo che consenta di usare tutti gli strumenti che la UE si è data nel corso degli anni – leva economica, servizio diplomatico, catena di comando, forze addestrate di reazione rapida, accesso diretto ad alcuni asset della NATO, etc. L’assenza di quel consenso, infatti, si paga sempre, e a lungo; come dovremmo ormai aver imparato.

Dunque, serve una maggiore coerenza tra analisi e iniziativa politica, e al contempo uno sforzo più serio e onesto per impegnarsi assieme, cioè con una responsabilità in solido: l’obiettivo è evitare sia la paralisi sia le iniziative sparse ed estemporanee, cioè un’altalena deleteria per la nostra credibilità collettiva e totalmente inefficace.

Intanto si dovrà evitare anche un altro errore concettuale, quasi opposto e purtroppo molto comune: quello consistente nel “saltare un passaggio”, sostenendo che la motivazione di fondo dei flussi migratori sta nel mancato sviluppo politico-economico dei paesi di origine e/o di transito, e dunque nei fallimenti della politica di assistenza europea. La prima parte di tale affermazione è certamente vera (meno la parte sulle responsabilità europee, visto che dalla povertà e dal cattivo governo si esce quasi soltanto grazie a dinamiche interne), ma è anche piuttosto irrilevante nell’immediato; ciò che conta nel breve e medio termine è attivare una vera politica estera e di sicurezza che tuteli gli interessi comuni. E ciò senza rifugiarsi in una sorta di autoflagellazione sterile – come accade se si ritiene che nulla si possa fare se prima non si “risolve” la questione dello sviluppo in un numero imprecisato di paesi.

In altre parole, l’Europa non può permettersi di scegliere la sequenza preferita di azioni da intraprendere: deve fare multitasking, adottando misure di emergenza mentre ridiscute l’intero impianto di Dublino (e forse parte di Schengen), e ampliando subito la sua presenza internazionale nei teatri di crisi “lontane” mentre continua a lavorare ai grandi progetti di sviluppo.

È davvero cruciale che la nuova global strategy che si sta approntando in questi mesi presso l’ufficio dell’Alto Rappresentante (da presentare a giugno) incorpori nel frattempo un dato di fondo: la gestione dei flussi migratori è anche e chiaramente una questione di politica estera e di sicurezza in senso ampio – la sicurezza delle società europee, quella individuale dei migranti, e la sostenibilità degli Stati di origine. Davvero una questione a tutti gli effetti strategica e globale.