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Sovranità marittima, cyber e terrorismo: le priorità di sicurezza cinesi

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La spesa militare della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 2015 ha raggiunto i 150 miliardi di dollari, un aumento del 10,1% rispetto al 2014, quando era pari a 132 miliardi (a sua volta un +12,2% rispetto al 2013). La cifra è certamente notevole, ma il tasso di crescita in questione è per Pechino il più basso degli ultimi cinque anni. Su tale flessione ha in parte influito il rallentamento della crescita del PIL cinese, che dovrebbe aggirarsi sul 7% nel 2015, 0,4 punti percentuali in meno rispetto all’anno passato.

In termini di spesa militare, quindi, la Cina è seconda solo agli USA, ma il divario tra i due Paesi è netto: nel 2015, il budget di base del Dipartimento della Difesa americano è stato di circa 495 miliardi di dollari.

Va detto che nel libro bianco sul “Diversificato impiego delle forze armate cinesi” del 2013 (l’ultimo finora pubblicato) Pechino specificava che la propria spesa militare era ugualmente ripartita tra personale, addestramento e manutenzione degli equipaggiamenti. Ciò significa che il bilancio divulgato dalla RPC trascura molte voci, per esempio quelle riguardanti il settore ricerca&sviluppo, l’importazione delle armi e la polizia paramilitare. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, il reale budget cinese potrebbe essere ben il 55% più grande di quello dichiarato. Per questo motivo, anche se Pechino afferma che la propria ascesa è “pacifica” (heping jueqi), ogni volta che pubblica le cifre sulla spesa per la difesa, gli USA e i Paesi che si trovano “alla periferia” dell’Impero del Centro si preoccupano.  

L’aumento del bilancio cinese dipende dalle priorità della RPC in termini di sicurezza nazionale. Evidenziamo le più impellenti.

La prima: diventare una potenza navale (haiyang qiangguo) e affermare la propria sovranità nel Mar Cinese Orientale (dove si contende con il Giappone le isole Diaoyu/Senkaku) e in quello Meridionale. Pechino reclama il controllo di almeno l’80% di quest’ultimo, su cui avanzano pretese anche Filippine, Malaysia, Brunei, Vietnam e Taiwan. Le invasioni via mare subite per mano dei Paesi europei e del Giappone (storico antagonista della Cina) dalle Guerre dell’Oppio in poi hanno evidenziato la vulnerabilità della costa orientale del Paese, lunga oltre 14.000 chilometri. Tra l’altro, è proprio in quest’area che si concentra il nucleo politico ed economico della RPC, di cui Pechino, Shanghai e Hong Kong sono i principali snodi.

Il governo cinese inoltre teme che gli USA e i loro alleati in Asia-Pacifico (Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Giappone) possano in futuro ostacolare i flussi  commerciali da e per la RPC che solcano questi mari. Le forze armate di Tokyo hanno al momento solo funzione di autodifesa, ma il Premier nipponico Shinzo Abe vuole rimuovere tale limite entro il 2020. Ciò, insieme alla contesa per le isole Diaoyu/Senkaku, alimenta la tensione tra Giappone e RPC e potrebbe ulteriormente incoraggiare la strategia americana del Pivot to Asia, formulata proprio per contenere l’ascesa militare ed economica della Cina.  

Infine, si consideri che i fondali del Mar Cinese Meridionale sono ricchi di risorse energetiche. Secondo l’agenzia di stampa della RPC Xinhua, vi si ritrovano dai 23  ai 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale (cioè circa un terzo di tutti gli idrocarburi posseduti dalla Cina Popolare).

Questi fattori hanno spinto Pechino a intensificare il processo – cominciato nel 2012 – di costruzione di isole artificiali per scopi militari e civili sugli atolli degli arcipelaghi Paracel e Spratly. Si pensi che da aprile 2014 la superficie dell’isola di Duncan, contesa con il Vietnam, è diventata almeno il 50% più grande e oggi è dotata di un presidio militare, quattro cupole radar, un impianto di produzione di calcestruzzo, un porto e una diga marittima rinforzata in costruzione. La Cina peraltro ha accusato il Vietnam di condurre le medesime attività, anche se l’intensità dei lavori sarebbe inferiore.

È presto per capire se questa tattica determini un vantaggio strategico per Pechino. Il maltempo, le tempeste e il sale marino potrebbero danneggiare le piste di atterraggio o comunque complicare le operazioni. Inoltre la loro lontananza dalla terra ferma, le dimensioni contenute e la scarsa presenza di risorse (in alcuni casi persino di acqua potabile) le rendono vulnerabili a potenziali attacchi. Ad ogni modo, secondo la logica di Pechino, la costruzione di queste isole artificiali dovrebbe spingere i Paesi confinanti ad accettare gradualmente i confini marittimi rivendicati dalla Cina. Per tale motivo, gli USA starebbero valutando l’ipotesi di inviare navi militari e caccia a largo delle Spratly.

Altra priorità strategica della RPC è diventare una potenza cibernetica (wangluo qiangguo). Come ha detto il Presidente cinese Xi Jinping, che lo scorso anno ha istituito un comitato ristretto per la sicurezza della rete e l’informatizzazione, “senza la sicurezza di Internet non c’è sicurezza nazionale e senza informatizzazione non c’è modernizzazione”. La nuova bozza della legge sulla sicurezza nazionale cinese (in fase di discussione) prevede esplicitamente la difesa della “sovranità cibernetica” (wangluo zhuquan) nel Web cinese, popolato da oltre 648 milioni di utenti. Il rafforzamento del sistema di monitoraggio e sorveglianza di Internet, che s’intreccia con le attività d’intelligence, controspionaggio e censura, mira a impedire che minacce esterne (vedi USA) e interne (aspirazioni democratiche e malcontento popolare) compromettano la stabilità del Paese. I timori del governo sono comprensibili: in particolare, le schermaglie cibernetiche con gli Stati Uniti, sotto i riflettori da circa tre anni, proseguono sebbene le due potenze abbiano creato un comitato bilaterale per lo spionaggio informatico. In più, gli “incidenti di massa” (termine vago per indicare proteste legate a diritto del lavoro, questioni etniche, inquinamento, demolizioni forzate) sono notevolmente aumentati negli ultimi anni, e Internet e i social network sono tra gli strumenti più utilizzati per organizzare le rimostranze.

Altra priorità è risolvere il problema terrorismo, contro cui Pechino ha lanciato una nuova campagna nel maggio 2014. Il governo cinese sostiene che frange estremiste della minoranza etnica degli uiguri, turcofoni di religione musulmana che abitano nella regione nord-occidentale dello Xinjiang, abbiano sferrato una serie di attentati dentro e fuori la regione. Secondo Pechino queste sarebbero in contatto con Al-Qaeda e circa 300 uiguri si sarebbero uniti allo Stato Islamico. Lo scorso marzo il governo ha persino annunciato di aver smantellato una cellula tornata dalla Siria. Il Xinjiang è ricco di giacimenti petroliferi ed è il punto di accesso della Cina all’Asia Centrale e al Medio Oriente: ciò lo rende uno snodo imprescindibile della Cintura economica della Via della Seta, il progetto infrastrutturale/commerciale con cui Pechino vuole collegare la RPC all’Europa. Per questi motivi, la sua stabilità è indispensabile.

In tale scenario, è opportuno rilevare che Pechino sta lavorando all’approvazione della sua prima legge anti-terrorismo. Questa, che è stata preceduta da documenti legislativi inadeguati, non renderebbe solo più efficaci le operazioni militari e di polizia nella RPC; l’Articolo 76 della bozza prevede infatti il possibile invio di missioni all’estero (sebbene con il consenso del Paese coinvolto). Qualora la legge fosse approvata in questa forma, si aprirebbero interessanti prospettive sul ruolo della Cina in Africa e Medio Oriente, aree molto instabili da cui l’Impero del Centro esporta grandi quantità di petrolio e gas per alimentare la propria economia.

A dispetto delle sfide che ha di fronte, l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) presenta delle vulnerabilità. Per esempio l’aumento del numero di funzionari militari disposti a vendere segreti a Paesi stranieri: sempre più di frequente le “talpe” sono reclutate via Internet, su siti per junmi, gli appassionati di questioni militari. Non a caso, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale (nuovo organismo voluto espressamente da Xi Jinping) ha recentemente adottato una nuova legge per il controspionaggio che punisce specificamente i cinesi colpevoli di collaborare con organizzazioni straniere impegnate in attività di spionaggio. 

Inoltre, Pechino è preoccupata dalla corruzione dilagante all’interno del Partito Comunista Ciinese e dell’EPL. La campagna lanciata da Xi per colpire “le tigri e le mosche” colpevoli di tale reato (e mettere fuori gioco i suoi avversari politici) ha colpito oltre 80mila funzionari e almeno novanta politici di alto rango. In più, secondo il quotidiano delle forze armate cinesi, dal gennaio 2013 oltre 4mila ufficiali con il grado di tenente colonnello o superiore, tra cui 82 generali, sono stati oggetto di un controllo da parte dei revisori interni. Di questi 21 sono stati rimossi dai propri incarichi, e 144 sono stati retrocessi.

Insomma, nonostante la crescita del budget militare cinese sia notevole, le complesse priorità di sicurezza nazionale, le vulnerabilità dell’apparato militare, e i rischi connessi ad un futuro ruolo più attivo lontano dai confini nazionali, rendono l’ascesa militare della Cina meno agevole di quanto possa apparire.