international analysis and commentary

Le rovine dello Stato siriano e le rovine di Palmira

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L’attenzione internazionale per la caduta nelle mani dell’ISIS/Daesh di un importante centro archeologico, come la città siriana di Palmira/Tadmur, porta alla luce una triste realtà: il mondo rimuove i conflitti più sanguinosi dalla coscienza collettiva, appena possibile. Gli enormi costi umani (oltre 200.000 morti e circa 4 milioni di rifugiati) della guerra che infiamma la Siria dal 2011 non sono del tutto dimenticati, ma certo tornano alla ribalta, per così dire, quando vengono minacciate le rovine in pietra di quella che fu una vibrante colonia romana due millenni fa. Lo stesso è accaduto in varie località dell’Iraq, ed è ormai ben nota ovunque l’ossessione iconoclasta dell’ISIS.

È importante non sottovalutare però il collegamento tra vicende belliche, drammi umanitari e patrimonio culturale. Non dobbiamo soltanto provare un senso di disorientamento etico, o semplicemente di colpa. Il drammatico conflitto in Siria, e il “fenomeno ISIS” che lì si è sviluppato dopo essere emerso inizialmente in Iraq, riguarda proprio quel collegamento: la concezione stessa della storia, il rapporto tra passato (tradizioni) e futuro (cambiamento), l’equilibrio tra violenza, tolleranza, popolazioni e territorio. In sostanza, si sta combattendo per definire il ruolo della politica nella risoluzione delle controversie, ricostruendo uno Stato che i cittadini riconoscano come rappresentativo e che consenta una libera vita civica. E questa è una delle più preziose eredità della nostra storia, quella che chiamiamo “occidentale”.

Proviamo allora, su questa base, a orientarci di fronte alla sensazione frustrante che in Siria si facciano un passo avanti e due indietro nella lotta contro l’ISIS – nonostante i bombardamenti, di cui poco si parla, anche della coalizione occidentale.

Gli episodi recenti sono difficili da collocare in un contesto coerente, e il motivo è che la Siria non è più un Paese coerente. È in effetti il terreno di scontro per almeno tre gruppi armati: le forze del regime di Bashar al-Assad, asserragliate lungo la linea che collega Damasco, Homs e Latakia, appoggiate dall’Iran e dagli Hezbollah libanesi; le forze ribelli anti-Assad, sostenute soprattutto dall’Arabia Saudita; e infine ISIS, che controlla oggi circa la metà del territorio siriano (seppure non le maggiori città). Complessivamente, la sensazione è che il regime di Damasco sia in maggiore difficoltà rispetto a pochi mesi fa, ma tuttora non disponibile a intavolare un vero negoziato per la rimozione di Assad e alcune concessioni ai ribelli in relazione al controllo del Paese. Non va dimenticato che un problema di fondo rimane irrisolto: le leve dello Stato, prima della guerra civile in corso, erano nelle mani della minoranza Alawita (in origine, una setta sciita) che rappresenta meno del 15% della popolazione. Una soluzione politica al conflitto dovrà comunque creare una forma di equilibrio sostenibile tra le varie componenti sociali e geografiche, il che richiede ovviamente compromessi difficili.

Nella prima fase della guerra civile, concisa con le altre rivolte arabe del 2011, molti hanno pensato che il regime di Assad sarebbe caduto in poche settimane, o mesi al più. Poi si è capito che si stava creando una situazione di terribile stallo militare, per l’incapacità delle milizie anti-regime di unirsi contro l’avversario comune e per l’influenza (denaro, armi, consiglieri) di varie potenze esterne a complicare il quadro interno. Evitato nel settembre 2013 un intervento militare massiccio (sebbene solo aereonavale) – che di fatto nessuno voleva davvero – Washington e i Paesi europei si sono rassegnati ad influire sul conflitto in modo assai limitato, in pratica solo per impedire il collasso delle forze di opposizione non alleate con l’ISIS. Al contempo, si è però verificata una strana convergenza di interessi proprio con il regime di Assad (e con l’Iran) nel tentativo di fermare l’avanzata dei “nuovi fondamentalisti”: una specie di alleanza inconfessata che non ha portato a una collaborazione sistematica – e dunque efficace. Nessuna delle parti in causa ha finora rinunciato all’illusione di poter “vincere” quasi per resa incondizionata degli avversari, ed è per questo che il conflitto non ha ancora consumato la sua forza distruttrice.

Nel frattempo, è nettamente cresciuta la consapevolezza internazionale che ISIS pone una seria minaccia a molti Paesi, anche al di fuori della regione e comunque ben oltre il complesso iracheno-siriano – basti pensare alla Libia. Se non altro, la minaccia non è più sottovalutata, e sono meglio noti i meccanismi di reclutamento, finanziamento, e operatività (para)militare. Una valutazione generale è che, a parte la repulsione per i metodi e i principi a cui si ispira il movimento, la sua efficacia operativa è limitata ai contesti di quasi-anarchia e manca tuttora una comprovata capacità di amministrare i territori conquistati. Semmai, un rischio da cui guardarsi è la sua apertura ad alleanze con gruppi disparati – compresa la vecchia Al-Qaeda – per mettere in comune risorse e conoscenze tattiche.

ISIS/Daesh è un movimento multiforme, con varianti fortemente caratterizzate da situazioni locali. Un movimento che si nutre non soltanto di ideologia radicale e profonda frustrazione sociale, ma che riesce anche ad alimentarsi sfruttando le differenze settario-tribali: ciò avviene in una regione che non ha mai davvero sviluppato modalità pacifiche, prevedibili e garantite dallo Stato, di risoluzione delle controversie e successione ai vertici del potere. In altre parole, l’ISIS si nutre dell’assenza di istituzioni statuali efficienti e inclusive. È indubbio che siano state circostanze specifiche a innescare il processo di disgregazione a cui assistiamo (in Siria dal 2011, e in modo diverso in Iraq dal 2003), ma le ragioni di fondo sono preesistenti e purtroppo ci sono ancora.

L’ordine politico e militare su cui si è a lungo retto il Medio Oriente è cambiato in modo irreversibile, ma i nuovi sistemi di governo che faticosamente dovranno emergere non saranno del tutto diversi dal passato: come sempre nella storia, il nuovo utilizza il vecchio, e il passato viene raccontato (dunque deformato) in modo da servire gli scopi del presente. Come erano soliti fare proprio gli antichi romani con le colonne e i decori di templi, archi e stadi – anche nell’oasi di Palmira, nell’allora provincia imperiale della Siria – i materiali del passato vengono riciclati, adattandoli a diverse esigenze.

Le società arabe devono fare oggi una grande opera di selezione a riadattamento delle loro tradizioni – mutuando anche istituzioni da altre culture e tenendo conto delle possibilità offerte dalle odierne tecnologie. L’Occidente intanto deve affrontare con intelligenza i suoi nemici dichiarati, sapendo che ISIS è un fenomeno transitorio, mentre sono ben più profondi i problemi irrisolti che esso riflette.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Mattino il 22 maggio 2015.