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Perché sull’Ucraina si rischia una vera guerra fredda

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L’annessione de facto della Crimea da parte della Federazione Russa, in marzo, è stata una sorta di blitz, e molti vi hanno visto un caso peculiare legato alle stranezze della storia – dunque un caso probabilmente unico. Eppure, è anzitutto Mosca ad averci detto più volte, con chiarezza cristallina, che le cose non stanno così: per il Cremlino esiste un diritto all’ingerenza – fino all’intervento militare – ovunque vi siano minoranze russe o che si definiscano tali chiedendo la protezione della madrepatria. Questo rende l’intero Stato ucraino una sorta di precario accidente storico, vista anche la sua origine indissolubilmente legata alla stessa identità nazionale e religiosa russa; e pone seri dubbi sull’inviolabilità di vari altri confini in Europa orientale. In termini generali, questo revanchismo ad ampio raggio è un principio politicamente inaccettabile per l’Occidente, oltre che contrario alle norme vigenti del diritto internazionale: esso scardina infatti l’edificio sempre delicato della sovranità statuale su territori e popolazioni che, proprio per ragioni storiche, non sono omogenei.

Ecco perché la sfida russa in Ucraina ci pone un vero dilemma: prendere sul serio le dichiarazioni reiterate e ufficiali di Vladimir Putin, creando i presupposti per una sorta di nuova guerra fredda con Mosca, oppure sperare che il leader russo stia bluffando e proseguire con una linea sostanzialmente accomodante fondata sui rapporti energetici e alcuni tavoli importanti in cui vige ancora una superficiale collaborazione multilaterale – a cominciare da Iran e Siria.

Che tanto gli europei quanto gli Stati Uniti siano in grave dubbio sulla migliore strategia da seguire, risulta evidente dal curioso “accordo” siglato a Ginevra il 17 aprile dai rappresentanti del governo russo, americano, di Bruxelles e del governo ucraino ad interim. Quella dichiarazione congiunta prevedeva in sostanza una de-escalation complessiva, monitorata da osservatori internazionali sotto il mandato dell’OSCE; è stata prontamente e totalmente ignorata dalle parti in causa in Ucraina, ed è sembrata fin da subito una finzione. Ha mostrato però – fatto serio e grave – la disperazione delle diplomazie di fronte agli eventi sul terreno. Non c’è dubbio che da molti russi proprio la rapidità e superficialità di quell’accordo siano state lette come un segno di debolezza occidentale, visto anche che nei giorni seguenti il calendario delle sanzioni si è fermato (restando limitato a livelli poco più che simbolici) e solo nelle ultime ore si sono intrapresi passi ulteriori per colpire gli interessi economici russi (sempre in modo molto selettivo e mirato). Il maggiore costo tangibile che Mosca ha pagato è quello imposto dai mercati internazionali, rapidi nel dare valutazioni anche sommarie sui trend in corso, ma anche volubili e dunque spesso inaffidabili come termometro dei rapporti strategici globali.

Al momento, la disgregazione progressiva dell’Ucraina appare come uno scenario plausibile, che passerebbe molto probabilmente per una guerra civile – uno scenario terribile. Le sue conseguenze regionali sarebbero poi difficilmente prevedibili, e forse perfino catastrofiche: c’è infatti in gioco il futuro della Russia stessa, che rischia di diventare al contempo più aggressiva all’esterno ma più insicura e fragile all’interno (nonostante le apparenze). Finora, l’incertezza sui reali contorni delle ambizioni russe ha avuto come effetto una debolezza di volontà strategica da parte occidentale; ciò non vuol dire tuttavia che la debolezza durerà per sempre. E qui sta un punto cruciale che potrebbe sfuggire a Putin, ai cittadini russi, e perfino alle stesse opinioni pubbliche occidentali.

Un segnale di inversione di tendenza è venuto dalla NATO, che è tornata a svolgere la sua classica funzione di struttura militare integrata, aumentando la prontezza operativa e ribadendo ufficialmente le garanzie ai paesi membri. Resta da verificare quanto l’Alleanza vorrà assumersi un ruolo più ampio di tutore di un tipo specifico di sicurezza regionale in Europa orientale, cioè un assetto di sicurezza a guida occidentale che veda la Federazione Russa come la maggiore minaccia. È ancora presto per dirlo.

Un fattore comunque decisivo – e spesso sottovalutato dall’inizio della crisi, nel novembre scorso – è la società ucraina: il sistema politico è disfunzionale e le fazioni che si sono alternate al potere hanno impoverito e depresso il paese, favorendo anche l’emergere di alcuni movimenti radicali. Nel frattempo, quelle leadership non hanno mai accettato il principio di una riconciliazione nazionale che potesse dar vita, gradualmente, a un vero senso dello Stato anche tra le consistenti minoranze russofone-russe (che in alcune regioni sono maggioranza).

È questo il problema di fondo che non consente oggi alle autorità di Kiev di controllare il proprio territorio e di esercitare quantomeno un vero soft power politico, anche al di là dei rapporti di forza oggettivi che certamente favoriscono la Russia sul piano militare. Non dimentichiamo che è stata proprio la sottovalutazione del fattore interno – “la piazza” – a sorprendere in qualche misura tanto Putin quanto l’Occidente nei giorni della fuga dell’allora presidente Yanukovich. Una parte di responsabilità per il futuro del paese è ancora sulle spalle della leadership ucraina, ora costretta a prendere in considerazione l’ipotesi di una “federalizzazione” dello Stato nel tentativo di tenerlo insieme, ma che di fatto potrebbe tradursi in una sovranità dimezzata a fronte delle intimidazioni russe. In ogni caso, il quadro interno è troppo composito per consentire una neutralizzazione del paese: una soluzione del genere implica rendere gli ucraini un oggetto (non un soggetto attivo) di negoziati internazionali, e ciò è probabilmente impossibile (a prescindere che sia o meno desiderabile).

Sul piano più ampiamente internazionale, intanto, si deve dare ragione a Henry Kissinger (ne scriveva già il 5 marzo sul Washington Post): se Putin confermasse una politica di prevaricazione militare sistematica verso l’Ucraina, il risultato sarebbe davvero una nuova guerra fredda. L’Occidente infatti, guidato in questa direzione da Obama nonostante la sua stessa riluttanza, non accetterà che Mosca minacci costantemente (magari in modo latente ma tangibile) l’autonomia dell’Europa centro-orientale.

È necessario ricordare quale fosse la dinamica centrale della guerra fredda: era il calcolo strategico dello “scenario peggiore” in ogni possibile situazione specifica, nell’ottica complessiva di una competizione a tutto campo tra due blocchi, che dunque spingeva entrambe le parti a usare la potenza militare (ed economica) a scopo dissuasivo. La costante deterrenza richiedeva un grado di prontezza operativa e di corsa agli armamenti che altrimenti non sarebbe stato giustificato. Ciascuna mossa doveva avere una risposta, la reazione a catena era spesso inevitabile, e la costruzione di rapporti di fiducia era la rara eccezione invece della regola. È vero che si svilupparono faticosamente dei meccanismi di controllo e gestione delle crisi, ma sempre nel contesto di una contrapposizione durissima senza esclusione di colpi.

Si dice spesso che l’assenza di una spinta ideologica da parte della Russia odierna renderebbe impossibile uno scontro di quella portata, ma non va dimenticato che le ideologie si creano anche rapidamente, con un mix di costruzione del consenso interno e repressione che può trasformare una società in modo quasi irriconoscibile. Basti pensare alla discesa della ex-Jugoslavia negli inferi della guerra civile a cui abbiamo assistito negli anni Novanta, attraverso la mobilitazione su basi etnico-nazionali.

Va sottolineato che anche gli interessi economici comuni, che chiaramente ci sono e che tutti cercano di difendere, finiscono in secondo piano quando cambia il calcolo complessivo dei costi e dei benefici. La storia insegna che è un errore dare per scontata la composizione di una grave controversia con i soli strumenti dell’interdipendenza economica. Si nota spesso quanto i legami con la Russia siano preziosi per molti paesi europei, a cominciare dalla Germania; ma lo sono anche quelli con il vasto hinterland centro-europeo che la politica russa sembra nuovamente minacciare. Ed è importante il legame con l’America, che si da sempre troppo per scontato.

L’attuale traiettoria di frammentazione dell’Ucraina è un autentico disastro in corso d’opera a cui si può ancora rimediare soltanto se si disegna lo scenario che si apre oltre l’immediato. Lo scenario è realmente quello di una guerra fredda contro la Russia, magari diversa e nuova ma fondata su criteri strategici simili rispetto a quella conclusa nel 1989-91. Finora il timore di una escalation incontrollata, sia in territorio ucraino sia nel rapporto bilaterale con la Russia, ha quasi paralizzato la reazione occidentale. Se tuttavia Mosca intraprenderà la strada di una sistematica affermazione di un proprio diritto imperiale, l’Occidente farà ricorso a tutta la sua potenza a scopo dissuasivo e di contrasto – una potenza aggregata ben superiore a quella russa.

Per il bene di tutti, è ora di guardare in faccia questa prospettiva e presentarla con chiarezza al Cremlino, sperando che sia sufficiente a fermare la forza d’inerzia degli eventi. Ad oggi, nella maggioranza delle capitali europee ma anche a Washington, il dado ancora non è tratto ma ci stiamo avvicinando al passaggio del Rubicone.