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Regole e paradossi del Senato USA

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Che per governare gli Stati Uniti non basti abitare alla Casa bianca si sa bene, al di là del mito della presidenza imperiale. Il presidente ha bisogno del concorso politico, attivo e concorde, del Congresso che fa le leggi. E ciò è sempre più difficile da avere, in un regime di divided government che dura da decenni. Ci vuole fortuna perché l’esecutivo e le due camere legislative siano controllate dallo stesso partito. Barack Obama ne ha goduto per i primi due anni, come anche Bill Clinton; Bush Junior per quattro anni (a cominciare dal 2003, quindi dopo lo shock dell’11 settembre); Bush Senior e Reagan mai. Obama e il suo partito sono in difficoltà: dal 2011 i Democratici sono minoranza in una House of Representatives repubblicana e molto ostile; e dove sono maggioranza, in Senato, sanno che possono prendere decisioni importanti e controverse solo con maggioranze qualificate – che non hanno.

Per governare, in Senato e quindi in Congresso, non è infatti sufficiente avere una maggioranza: ci vuole una super-maggioranza. Ciò è dovuto alle forme che ha assunto l’ostruzionismo – che qui si chiama con il nome più evocativo di filibuster. I senatori hanno diritto di parlare quanto vogliono sulle misure in discussione; è questo un antico privilegio che è invece negato ai membri della House, dove da sempre i tempi degli interventi sono contingentati. Coloro che trovano sgradito un progetto di legge possono quindi impiegare tattiche dilatorie, fare discorsi infiniti, tirare le cose in lungo finché ne abbiano le forze. Secondo la “Rule XXII” del regolamento interno, è tuttavia possibile interrompere il dibattito, e passare al voto sul merito del progetto stesso, con una mozione di chiusura detta cloture. Ma la mozione deve essere approvata da 3/5 dei senatori eletti – cioè, allo stato delle cose, da 60 senatori su 100.

La vita del Senato ha così alcuni aspetti surreali. Il primo è il più evidente: in teoria, com’è ovvio, per approvare una legge basta la maggioranza semplice di 51 voti; ma di fatto, per essere certi di superare un eventuale ostruzionismo e quindi di poter votare su di essa, ce ne vogliono almeno nove di più. E siccome da quarant’anni nessun partito gode di maggioranze così ampie, occorre un piccolo aiuto da membri dell’opposizione (oggi i Democratici hanno 52 seggi più due alleati indipendenti). Se l’opposizione è compatta e indisponibile, cioè se il sistema politico è molto polarizzato secondo linee partisan, com’è quello attuale, e i compromessi sono considerati tradimenti, ciò può rivelarsi assai difficile da ottenere. E il filibuster diventa efficace e attraente. Da quando sono partito di minoranza (dal 2007, ancora sotto la presidenza di Bush Junior), i senatori repubblicani vi hanno fatto ricorso più di un centinaio di volte in ogni sessione biennale – un record storico.

Se parecchi di questi filibusters non hanno avuto la risonanza pubblica che ci si aspetterebbe, è perché sono diventati quasi invisibili. Grazie ad alcuni altri strani marchingegni, nei dettagli dei quali si nasconde il diavolo. Affinché l’ostruzionismo funzioni non è necessario metterlo in pratica, è sufficiente annunciarlo, metterlo agli atti: si chiama silent o virtual filibuster. Inoltre, essendo consentito avere due progetti di legge in discussione in aula (“two-track system”), qualora uno sia colpito dall’ostruzionismo annunciato, il Senato può passare subito all’altro – senza perdere tempo, ma anche abbandonando il primo progetto al suo destino. Tutto ciò può uccidere una legge in fasce – se gli sponsor sanno di non avere i voti per chiudere il dibattito, neanche la presentano in aula. Può ucciderla in itinere – come è accaduto pochi mesi fa per il gun control bill di Obama. O può costringere a compromessi sui contenuti – come è accaduto per la riforma sanitaria del 2010.

Dietro queste astrusità procedurali ci sono ragioni e intenzioni che, storicamente, hanno prodotto effetti paradossali. L’intenzione originaria era infatti quella di ingabbiare l’ostruzionismo, non di renderlo più efficace, attraente, e veloce, come è invece accaduto. Dopo più di un secolo di esercizio libero (e piuttosto raro), il filibuster senatoriale fu regolamentato per la prima volta nel marzo 1917 – per ragioni di sicurezza nazionale. La Rule XXII fu adottata allora, su pressione del presidente Wilson, per stroncare l’opposizione dei senatori pacifisti ad alcune sue misure che anticipavano l’entrata del paese nella Grande guerra. Il quorum per la cloture era di 2/3 dei senatori presenti e votanti, un po’ diverso da quello di oggi. Il sistema attuale, comprendente il quorum dei 3/5 di tutti i senatori in carica, il “two-track system” e il virtual filibuster, è stato invece perfezionato negli anni 1970s. Con i risultati che abbiamo visto.

Il virtual filibuster, fra l’altro, ha esaltato la dimensione burocratica e di routine dello strumento. Ma ne ha anche svuotato la legittimità ideale e la funzione pubblica. Sono infatti svaniti i talking filibusters, le lunghe maratone oratorie rese celebri al cinema da James Stewart in Mr. Smith Goes to Washington (1939). Ed è quindi svanito il dramma fisico e l’eroismo agitatorio di simili imprese, che mirano a sensibilizzare non i cinici professionisti che siedono in Senato bensì l’intera cittadinanza – su nobili questioni di principio manomesse da maggioranze inique. Una preoccupazione, quest’ultima, ben radicata nella cultura politica americana, per cui i talking filibusters sono stati talvolta riesumati proprio a tal fine. Lo hanno fatto l’indipendente-socialista Bernie Sanders contro l’estensione dei tax cuts di Bush Junior, nel 2010; e il Repubblicano libertarian Rand Paul, lo scorso marzo, contro la guerra dei droni di Obama.

Naturalmente, le nobili questioni di principio sono tali in the eye of the beholder. Una delle ragioni delle riforme del filibuster degli anni Settanta è che, fino ad allora, le lunghe maratone oratorie erano diventate la specialità dei senatori democratici del Sud, nelle loro campagne in difesa della segregazione razziale. E avevano ottenuto importanti successi: negli anni Trenta avevano bloccato una anti-lynching law già approvata dalla House e che aveva il (timido) avallo di Roosevelt. Altre performance storiche furono quella del 1957 di Strom Thurmond del South Carolina, che parlò contro una legge sui diritti civili per più di 24 ore, leggendo di tutto – un record ineguagliato. E più tardi, guidati da Robert Byrd del West Virginia, fecero un ostruzionismo di 75 ore contro il fondamentale Civil Rights Act del 1964, che riuscì a passare solo dopo l’approvazione di una mozione di cloture.

Da qualche anno, l’ostruzionismo è diventato di nuovo un oggetto problematico. Parecchi osservatori ritengono che i suoi usi e abusi distorcano il processo legislativo fino alla paralisi. I liberal, in particolare, frustrati dall’intransigenza dei Repubblicani, tuonano contro le perversioni del “governo della super-maggioranza”, e invocano scorciatoie interpretative che lo dichiarino incostituzionale. La questione sembra più di natura politica e regolamentare, e anche in Senato si discute di possibili rimedi, che sono però assai ardui da realizzare. Perché tutti sanno che le fortune elettorali sono mobili: i Democratici che sono maggioranza oggi, sono stati minoranza ieri, avidi anch’essi di praticare il filibuster quand’era il caso – e torneranno a essere minoranza domani. E perché cambiare le regole richiede comunque consenso bipartisan: anche contro le riforme del filibuster si può fare filibuster.