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Il rapporto obbligato più importante al mondo

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Nel fine settimana trascorso nel deserto californiano di Palm Springs, Barack Obama e Xi Jinping hanno passeggiato, mangiato, bevuto e discusso di vari temi importanti, dalla proprietà intellettuale alla Corea del Nord. Di risultati concreti non ce ne sono stati molti, a parte forse un avvicinamento su Pyongyang e un accordo ambientale sulla riduzione nell’uso degli idrofluorocarburi. Ma le recensioni del summit di Sunnylands sono state generalmente positive. Dopo tutto, l’obiettivo principale non era la risoluzione di specifiche controversie bilaterali. Piuttosto l’incontro era stato pensato per sviluppare a una relazione più relaxed e più produttiva tra i due presidenti di quella, gelida, che Obama ha intrattenuto con Hu Jintao, il predecessore di Xi. E forse proprio per non mettere il rapporto personale in pericolo già sul nascere, i leader delle due più grandi economie al mondo hanno preferito ignorare “l’elefante nella stanza”, ovvero l’economia.

“Non sappiamo esattamente cosa sia stato detto a livello economico, ma mi sembra l’incontro rappresenti un passo avanti promettente, un’apertura”, dice Adam Hersh, economista ed esperto di Cina presso il Center for American Progress a Washington.

Certo, il dibattito sulla cyber-security ha dominato la due-giorni californiana proprio per via delle sue implicazioni sia a livello di sicurezza nazionale sia a livello economico. Un rapporto pubblicato a maggio dalla Commission on the Theft of American Intellectual Property, un gruppo americano indipendente e bipartisan, ha stimato che, complessivamente, il furto di proprietà intellettuale costa agli Stati Uniti circa 300 milioni di dollari l’anno. E la Cina sarebbe responsabile per il 50-80% di queste violazioni. In una conferenza stampa a fine summit, Tom Donilon, consigliere uscente di Obama per la Sicurezza Nazionale (che lascerà il proprio ruolo a luglio e sarà sostituito da Susan Rice, oggi ambasciatrice americana alle Nazioni Unite) ha dichiarato: “La risoluzione di questo problema è cruciale per il futuro delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Cina”. 

L’insistenza americana sulla protezione dei dati sensibili ha peraltro assunto una dimensione un po’ surreale sullo sfondo del simultaneo scandalo Datagate per cui il presidente rischia di pagare un prezzo politico interno. Al di là di questo, Obama e Xi non pare abbiano discusso di quei temi prettamente economici che in realtà dominano l’agenda di Washington e Pechino ormai da anni, come ad esempio la bilancia commerciale e la politica monetaria.

Con l’emergere della potenza cinese, a un tasso medio di crescita del 9% all’anno durante gli ultimi quindici anni, i due paesi hanno infatti costruito una vasta rete di scambi e relazioni, che ha sì un impatto positivo per entrambi ma che genera anche molto nervosismo. Dal 2001 in particolare, anno in cui la Cina è entrata a far parte della World Trade Organization, il commercio con gli Stati Uniti è passato da 121 miliardi a oltre 536 miliardi di dollari l’anno.

Da un lato, non c’è dubbio che gli americani abbiano tratto vantaggio dai prodotti a basso prezzo provenienti dalla Repubblica Popolare e dall’interesse di Pechino per i buoni del Tesoro a stelle e strisce (le riserve da 1,2 miliardi di dollari ne fanno il più grosso creditore degli Stati Uniti). È però anche vero che la perdita di posti di lavoro in America per via del minor costo della manodopera cinese e l’enorme debito commerciale accumulato dagli Stati Uniti verso la Cina, che l’anno scorso ha toccato il picco storico di 315 mila miliardi di dollari, fanno di questo paese asiatico un naturale capro espiatorio, in particolare tra gli elettori.  

Tant’è che, durante la campagna elettorale del 2012, diversi candidati repubblicani alla presidenza, incluso il finalista Mitt Romney, hanno usato toni duri contro le politiche monetarie perseguite dalla Banca Centrale cinese, accusata di abbassare artificialmente il valore dello yuan in modo da rendere le proprie aziende e i propri export sempre più competitivi a livello internazionale. Un problema che continua a essere molto sentito a Washington anche oggi, nonostante lo Yuan abbia raggiunto recentemente il tasso di cambio con il dollaro più alto dal 2005. La settimana scorsa, ad esempio, appena qualche giorno prima dell’incontro tra Obama e Xi, un gruppo bipartisan di senatori ha presentato l’ennesima proposta di legge che in teoria dovrebbe permettere all’amministrazione di combattere più efficacemente la manipolazione della valuta da parte di Pechino. Finora, i  tentativi di questo genere emersi da Camera e Senato sono falliti perché la leadership democratica e repubblicana sia al Congresso sia alla Casa Bianca teme di innescare una pericolosa guerra commerciale. Ma le pressioni rimangono forti.

Per quanto riguarda i cinesi, invece, gli investimenti americani nel loro paese hanno giovato enormemente alla crescita economica, e il trasferimento di tecnologia e know-how dagli Stati Uniti ha contribuito alla rapida ascesa di una nuova classe di imprenditori di successo. Ora però che le loro ambizioni della Cina si sono fatte globali, cominciano a scontrarsi direttamente con una certa apprensione da parte degli americani, che non sono certo pronti a rinunciare alla propria posizione dominante. Capita sempre più spesso che gli investimenti cinesi in America generino l’opposizione dell’opinione pubblica e facciano scattare automaticamente un loro riesame da parte del governo. È questo il caso, recente, di Shuanghui, l’azienda cinese che ha avanzato un’offerta di acquisto da 4,7 miliardi di dollari di Smithfield, una leggendaria compagnia americana produttrice di carni di maiale. I membri del Congresso chiedono ora alle agenzie federali che dovranno dare il proprio ok all’acquisizione, la più grossa mai tentata da una compagnia cinese negli Stati Uniti, di indagare sui possibili rischi che questa potrebbe presentare per la sicurezza alimentare in America.

Insomma, Stati Uniti e Cina rimangono ambivalenti rispetto alla propria crescente interdipendenza economica. Non ne riescono più fare a meno ma non sono neanche disposti a celebrarla. E la diffidenza reciproca continua a permeare i loro rapporti anche a livello multilaterale: sia Washington che Pechino sono infatti promotori di iniziative separate per creare zone di libero scambio nell’Asia orientale. L’America è al lavoro simultaneamente su un accordo con il Giappone e un altro (noto come Trans-Pacific Partnership o TPP) che coinvolge Australia, Brunei, Cile, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. La Cina, nel frattempo, sta portando avanti discussioni per un FTA con Giappone e Corea del Sud, il quale andrebbe ad aggiungersi al già esistente Asia-Pacific Trade Agreement (o APTA), che include Bangladesh, India, Laos, Corea del Sud e Sri Lanka. La peculiarità di tutti questi sforzi di liberalizzazione nella regione asiatica e del Pacifico è che, almeno fin qui, Cina e Stati Uniti stanno cercando di escludersi reciprocamente.

Il tentativo dei presidenti Obama e Xi di forgiare un rapporto basato sulla fiducia personale e, in questa maniera, di migliorare le relazioni tra i rispettivi paesi arriva quindi al momento giusto.

“Si è riconosciuto che non c’è stato alcun progresso in questa relazione dal 1972”, spiega Hersh di American Progress. “Ma che ora c’è bisogno di un approccio pragmatico che possa aiutare tutti a affrontare la vertiginosa varietà di problematiche bilaterali e internazionali che Stati Uniti e Cina si troveranno davanti nei prossimi anni”. Per Hersh, data la giusta predisposizione d’animo, questioni come quelle monetarie e degli investimenti sono “sicuramente risolvibili”. Rimane da vedere, però, come questi due paesi “gestiranno i cambiamenti tettonici che le rispettive economie stanno attraversando” e se gli Stati Uniti, e il mondo, saranno in grado “di far spazio alla crescita cinese, con relative problematiche di diseguaglianza e scarsità delle risorse, senza nel frattempo distruggere il pianeta”.