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Papa Ratzinger e la Germania: un rapporto non facile

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Wir sind Papst, “noi siamo Papa”. In questo modo il più diffuso quotidiano tedesco, la Bild Zeitung, aveva salutato l’elezione al soglio pontificio del cardinale Joseph Ratzinger nell’aprile 2005. Un’euforia iniziale (con qualche riconoscibile tinta nazionalista) che non ha impedito, però, che la Chiesa guidata da Benedetto XVI incontrasse in Germania anche serie difficoltà di ordine politico.

Sono stati essenzialmente tre i temi-chiave, di natura diversa, sui quali nell’opinione pubblica e nelle classi dirigenti si sono registrate le più significative riserve nei confronti del papato di Ratzinger: il rapporto con il protestantesimo, l’elaborazione del passato tedesco, e gli abusi sui minori ad opera di membri del clero.

Non può stupire che nella patria della Riforma si guardi con grande interesse ai rapporti ecumenici fra la Chiesa cattolica e quella evangelica – i due gruppi di fedeli sono sostanzialmente equivalenti: il 28,9% della popolazione è protestante, il 29,9% è cattolico (stando alle rilevazioni del 2011). Un terreno, quello del dialogo ecumenico, sul quale durante il pontificato di Benedetto XVI si sono registrati alcuni segnali di attenzione verso i seguaci di Lutero e Calvino, ma nessun riconoscimento delle Chiese protestanti quali Chiese “in senso proprio” (la denominazione ufficiale è invece “comunità ecclesiali”).

Lo stesso celebre discorso papale di Ratisbona, del 2006, noto soprattutto per le incomprensioni che creò con il mondo musulmano, era costruito intorno alla presa di distanza da una de-ellenizzazione del cristianesimo rappresentata essenzialmente, per Ratzinger, dal protestantesimo. Il bilancio che viene tratto del suo pontificato dal punto di vista degli evangelici, pertanto, è a luci ed ombre.

Il modo di affrontare il passato nazionalsocialista della Germania da parte del Papa tedesco è il secondo aspetto problematico da sottolineare. Nell’ambito della “politica della memoria”, la sensibilità dell’opinione pubblica e della classe politica è, come noto, molto alta, e il ricordo della Shoah rappresenta una sorta di “religione civile” della Repubblica federale. Per questa ragione, la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, fra i quali il negazionista inglese Richard Williamson, quasi creò nel 2009 un incidente diplomatico fra Berlino e il Vaticano: la cancelliera Angela Merkel in persona dichiarò ufficialmente di fronte alle telecamere – con un gesto probabilmente senza precedenti – che la Germania esigeva spiegazioni dal Papa per una scelta che appariva come un segno di tolleranza verso le offese alla memoria delle vittime del nazismo.

Anche il viaggio di Ratzinger ad Auschwitz nel 2006, per quanto denso di significato, non era stato esente da critiche: nel discorso che pronunciò in quella circostanza, Benedetto XVI sembrò attribuire le responsabilità dello sterminio degli ebrei esclusivamente ai dirigenti nazisti, quasi “assolvendo” l’intero popolo tedesco in quanto vittima di una manipolazione di un gruppo di criminali.

In terzo luogo, c’è stato lo scandalo delle violenze sessuali esploso all’inizio del 2010, quando i mezzi d’informazione resero nota la vicenda del Canisius-Kolleg di Berlino, una scuola cattolica d’élite nella quale molti allievi furono vittime di abusi per anni. Da quel momento non fu che un dilagare di notizie di sempre nuovi episodi del passato, avvenuti in ogni angolo del paese, alle quali la Chiesa nel suo insieme e le singole istituzioni implicate reagirono non sempre con la dovuta prontezza. Sul ruolo del Papa, le persone coinvolte nella vicenda e gli osservatori si dividono tra coloro che ne hanno apprezzato l’impegno a fare chiarezza e quanti sottolineano, invece, il mancato intervento nei decenni precedenti – anche quando Josef Ratzinger ricopriva altri ruoli.

 essenziale mettere in rilievo soprattutto che tale scandalo ha riproposto, attraverso il complesso tema del rapporto fra la Chiesa cattolica e la sessualità dei suoi ministri, una questione di fondo in Germania: la relazione della dottrina ufficiale con la modernità di una società altamente secolarizzata come quella tedesca. Lo segnala il fatto che ad aprire il dibattito sul celibato dei preti siano state non solo le realtà del cattolicesimo di base (ad esempio l’associazione “Noi siamo chiesa”, Wir sind Kirche) o i teologi critici, ma anche le organizzazioni laicali “ufficiali” dei credenti, come il Comitato centrale dei cattolici tedeschi. Si è così evidenziato il rischio di un ulteriore scollamento fra una società aperta e dinamica e un’istituzione percepita come vetusta e chiusa al nuovo.

Un rischio, peraltro, che è ben presente al Vaticano, al punto da essere affrontato attraverso il programma di ri-evangelizzazione rivolto in particolare alle società europee. La Germania, da questo punto di vista, è l’emblema delle molte società occidentali nel quale le confessioni cristiane stentano a mantenere un ruolo centrale: secondo le statistiche ufficiali, la maggioranza relativa dei tedeschi non professa alcuna religione. Sono in particolar modo i cosiddetti “nuovi” Bundesländer, cioè l’ex Germania est, quelli dove la presenza di fedeli di entrambe le confessioni (cattolica e protestante) è assai scarsa: un retaggio del regime comunista che, a oltre vent’anni dalla caduta del Muro, non accenna a svanire.

Può sembrare paradossale che un simile paese abbia scelto per ricoprire la massima carica dello Stato, la Presidenza della Repubblica, un pastore evangelico, cioè Joachim Gauck. E tuttavia è un paradosso solo apparente, dal momento che la figura di Gauck si è imposta come autorità morale non per le sue funzioni pastorali, bensì per la sua azione civica: nella Germania orientale, fu infatti un attivista per i diritti civili e, successivamente, ha presieduto l’organismo deputato alla gestione dei materiali della Stasi, una delle istituzioni-chiave della “politica della memoria” tedesca.

In una prospettiva tedesca, si può affermare che come l’elezione di Ratzinger non ha portato, al di là dell’iniziale euforia, nuovo consenso per la Chiesa di Roma, così la sua rinuncia non sembra possa avere conseguenze rilevanti sui fedeli cattolici. Anche sul versante politico interno è difficile immaginare contraccolpi di qualche importanza: la dialettica fra i partiti non conosce pressoché mai riferimenti alle dottrine religiose, né gli interventi pubblici della Conferenza episcopale tedesca paiono condizionarla. La stessa CDU di Angela Merkel, pur essendo un partito di ispirazione cristiana, mostra una piena autonomia dalle istituzioni ecclesiastiche. Né sembra trovare adesione nella cultura politica tedesca il richiamo al riconoscimento del “diritto naturale” fatto dal Papa nel suo storico discorso al Bundestag del 22 settembre 2011.

Ciò non significa, tuttavia, che la classe dirigente tedesca sia indifferente all’esito della successione a Benedetto XVI. Sullo sfondo di questa vicenda ci sono soprattutto le preoccupazioni per la tenuta del progetto di unificazione europea, nel quadro di una crisi economica e sociale che ne ha scosso le fondamenta. L’ascesa al soglio petrino di un europeo potrebbe allora rappresentare un segnale, per quanto indiretto, della centralità che il destino del vecchio continente continua a ricoprire nello scenario globale. E, dunque, dell’importanza di assicurarne la stabilità attraverso l’integrazione – come vogliono, pur tra molte contraddizioni, le classi dirigenti tedesche.