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Le elezioni a 360 gradi: swing states, Congresso e governatorati

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Il 6 novembre si vota non solo per eleggere il presidente, ma anche per la Camera, per un terzo del Senato e per la guida di 11 Stati.

Per quanto riguarda le elezioni presidenziali, tutta l’attenzione è concentrata sugli Stati in bilico. Il recupero di Romney, certificato dal dato dei sondaggi nazionali, si è esteso alle ben più importanti rilevazioni Stato-per-Stato. Il candidato repubblicano è riuscito ad appaiare il presidente uscente in Colorado, Iowa, New Hampshire, Virginia; a passare in leggero vantaggio in Florida e a riaprire perfino la partita in Wisconsin, uno stato finora considerato “solidamente” democratico, ma dove si sta verificando un possibile “effetto Ryan” (il Wisconsin è lo Stato di origine e di elezione del candidato repubblicano alla vicepresidenza). Si tratta di una tendenza positiva che è iniziata subito dopo il primo dibattito televisivo e che solo in parte si è attenuata a seguito delle buone performance di Obama negli altri due duelli presidenziali. Tutto questo potrebbe però non bastare al candidato repubblicano per raggiungere la soglia dei 270 Grandi Elettori. Anzitutto, Romney dovrebbe conquistare tutti gli Stati appena menzionati. E, giacché si pensa che Obama vincerà in Michigan, Nevada e Pennsylvania, pare che l’Ohio torni a essere ancora una volta lo Stato-chiave. Senza di esso, una vittoria repubblicana è quasi impossibile. E qui, il presidente uscente è dato in vantaggio di 2-3 punti da tutti i maggiori istituti demoscopici.

Le superiori chances di Obama derivano proprio dal maggior numero di combinazioni a disposizione. Il presidente può perdere in Ohio purché riesca a vincere in Florida. E può perfino mancare la vittoria in Ohio, Florida e Virginia a patto che conquisti Colorado, Iowa e New Hampshire. Romney invece può permettersi di perdere solo uno di questi Stati (purché non sia l’imprescindibile Ohio) per conquistare la presidenza. La riconferma di Obama rimane quindi ancora lo scenario più probabile, ma il grande recupero che Romney è riuscito a realizzare negli ultimi 40 giorni di campagna elettorale lascia al candidato repubblicano buone speranze di vittoria. Stando ai sondaggi si potrebbe anche assistere a un risultato di rilevanza epocale: Romney vincitore nel voto popolare, ma Obama eletto presidente in virtù dei meccanismi del Collegio Elettorale. Si tratterebbe di uno scenario verificatosi soltanto quattro volte nella storia americana (1824, 1876, 1888 e nelle note elezioni del 2000) e che inevitabilmente rinfocolerebbe il dibattito sulla necessità di riformare il sistema di elezione presidenziale.

Non meno interessanti sono le elezioni congressuali,  di grande rilevanza soprattutto per capire se il prossimo presidente avrà vita facile a far passare le proprie proposte o se di nuovo si troverà al cospetto di un Congresso diviso o interamente controllato dall’opposizione. Per prima cosa va detto che, in caso di riconferma di Obama, è molto improbabile che l’intera catena legislativa sia in mano democratica. Non è invece impossibile che a un’eventuale presidenza Romney si abbini un Congresso a piena maggioranza repubblicana.

Come capita ogni due anni, la camera dei Rappresentanti si rinnova completamente. Nel 2010 le elezioni di medio termine furono un trionfo repubblicano, con la riconquista della maggioranza e un saldo positivo netto di 63 seggi, la vittoria più larga di uno dei due partiti dal 1948. Attualmente i Repubblicani controllano 241 seggi, a fronte dei 194 deputati democratici. È opinione unanime che la maggioranza non cambierà di mano. Ed è anche probabile che i rapporti di forza rimarranno più o meno quelli attuali, con il Partito Repubblicano in ampio controllo della Camera. Sarà comunque di sicuro interesse osservare la performance dei candidati vicini al Tea Party (per misurare i rapporti di forza all’interno del Partito Repubblicano) e in particolare l’eventuale riconferma dell’eroina conservatrice Michelle Bachmann nel sesto distretto del Minnesota.

Il Senato rinnova invece un terzo dei propri membri. Attualmente i senatori democratici sono 51, quelli repubblicani 47. La maggioranza democratica è però rafforzata dai due “indipendenti”, Joe Lieberman del Connecticut e Bernie Sanders del Vermont, che votano abitualmente con il partito di Obama. Fino a qualche mese fa i sondaggi davano una conquista repubblicana come molto probabile. Nelle ultime settimane invece le previsioni si sono fatte più incerte e al momento sembrerebbe più plausibile la conferma della maggioranza democratica. Tuttavia, i timori del partito dell’asinello si fondano sul fatto che dei 33 seggi in palio ben 23 sono attualmente occupati da propri Congressmen e appena 10 da Repubblicani. Inoltre ci sono 11 open seats (7 Democratici e 4 Repubblicani), cioè seggi dove non è in corsa il senatore uscente e dove quindi non ci sarà alcun effetto incumbent, cioè quel vantaggio competitivo di cui storicamente gode il parlamentare in carica. I Democratici dovrebbero mantenere agevolmente 15 seggi e strappare ai Repubblicani un senatore in Maine, dove vincerà probabilmente l’ex governatore e ora candidato indipendente, ma vicino ai Democratici, Angus King. I Repubblicani hanno al sicuro 5 seggi che già controllano e dovrebbero conquistare l’open seat democratico del Nevada. Le restanti 11 corse sono quelle che decideranno il controllo del Senato. Al centro dell’attenzione sono i seggi di Virginia, North Dakota e Montana, vinti dai Democratici 6 anni fa in Stati che sono considerati più conservatori che liberal. Quindi, se è possibile che i Democratici riescano a mantenere il controllo del Senato, non è nemmeno esclusa la possibilità del pareggio a quota 50. In tal caso, da prerogativa costituzionale, il tie-breaking vote, cioè il voto decisivo, sarà quello del vicepresidente. Il che significa che l’importanza del duello Obama-Romney potrebbe andare addirittura oltre la lotta per la presidenza ma incidere anche sul controllo del Senato.

Sono poi in palio undici poltrone da governatore, ma nessuno degli Stati più importanti andrà al voto in questa tornata elettorale. Lo scenario attuale vede i Repubblicani condurre sui Democratici per 29 governatori a 20 (il Rhode Island è amministrato dall’ex Repubblicano, ora Indipendente, Lincoln Chafee). Come per le sfide per il Congresso, quella del 2012 si profila anche a livello governatoriale come un’elezione in cui i Democratici hanno tutto da perdere: delle 11 poltrone in palio, infatti, 8 sono attualmente democratiche e soltanto 3 repubblicane. Il GOP potrebbe quindi incrementare il proprio vantaggio, anche perché 4 governatori democratici uscenti hanno deciso di non ricandidarsi o hanno raggiunto il limite del numero di mandati previsti dalla legge. Il partito di Obama dovrebbe confermare senza problemi Delaware, Vermont e anche territori per loro ostici quali Missouri e West Virginia, mentre i Repubblicani non dovrebbero incontrare difficoltà nel vincere in North Dakota, Utah e Indiana. Del tutto aperte le sfide di North Carolina, Montana, New Hampshire e Washington, che sono open seats con governatore uscente democratico,  e quindi rappresentano una ghiotta occasione per i candidati repubblicani.

 

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