Allargare l’idea di allargamento europeo: MEGA – “Make Europe Greater Again”
New Geoeconomics #8
Cosa farà l’Europa da grande non lo sa nessuno, innanzitutto perché ignoriamo quanto grande possa diventare l’Europa. E non si tratta solo delle metriche di solito usate per misurare la grandezza. Quindi l’estensione, il peso economico, la popolazione, etc. Si tratta piuttosto di una percezione di sé come un tutto potenziale, coltivata da millenni, finalmente capace di varcare il Rubicone che ancora separa l’Europa dall’essere un tutto reale. L’Europa diventerà grande, a prescindere da quanto diventerà grande, solo quando farà questo passaggio. Se mai lo farà.

L’eterna dialettica tra spazio e potenza
Ma la grandezza si misura anche con lo spazio, appunto, e lo spazio europeo oggi è uno, nessuno e centomila. C’è uno spazio economico europeo, ad esempio, che non coincide strettamente con quello del mercato unico. Ci sono trattati di collaborazione con vari Paesi che si incrociano ma non coincidono col Trattato che diede vita all’UE e poi alla moneta unica, che peraltro condividono solo alcuni degli abitanti dell’Unione.
Questa sorta di matrioska vive avvolta da uno spazio di memorie condivise, che più di ogni struttura istituzionale parla al cuore degli europei, che sanno di essere europei ma non ci credono. Preferiscono credere alla loro piccola patria, la loro casa avita, dimenticando con ciò la vocazione che ha generato l’Europa sin dalle origini: l’immaginazione senza frontiere.
Attorno a questo spazio europeo, intero e insieme frammentato, si affastellano terre che non sono europee, a rigor di diritto, pur essendolo in sostanza. Come si fa a dire che la Svizzera, incistata fra Italia, Germania, Austria e Francia, non sia europea? O la Norvegia, da dove vennero i vichinghi che arrivarono in Sicilia?
L’Europa – il vasto spazio del sub-continente euro-asiatico – somiglia a un organismo multicellulare dove ogni cellula rivendichi la sua specificità dimenticandosi di collaborare per il bene comune. E questo spiega bene la nostra tendenza all’entropia, raccontata da secoli di conflitti suicidi. L’Europa non è ancora una realtà politicamente viva. Perciò non è diventata grande.
Da qualche decennio tuttavia l’Europa, intesa stavolta come costruzione istituzionale, dice al mondo d’essere cresciuta, al punto di dotarsi persino di una moneta sovrana, ma senza sovrano. Che scelta inaudita. Solo che il cuore lanciato oltre l’ostacolo ha finito con l’infrangersi sullo scoglio della realtà che l’Europa pensava di essersi lasciata alle spalle perché superata dalla storia: quella della potenza e della forza. Non era proprio così. Ci voleva l’ennesima guerra europea, stavolta sul fronte orientale, per ricordarcelo. Sicché adesso l’Europa dubita. Era davvero superata la logica della potenza, oppure è il caso di tornare a riempire gli arsenali, visto che il nostro principale alleato è divenuto riluttante?
Ma il dibattito sulla necessità di potenziare l’Europa, anche solo a scopi difensivi, sarebbe monco se si limitasse a una questione di armi ed eserciti. Non si può ridurre la potenza alla disponibilità di arsenali. E’ molto più di questo. La potenza è innanzitutto volontà di espansione. E non è affatto chiaro, oggi, se in Europa prevalga il desiderio di resistere agli assedi, magari dentro una fortezza bene armata, oppure se esiste un autentico desiderio di diventare grande. Stavolta anche nello spazio.
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Un modo per scoprirlo c’è, ed è sotto i nostri occhi: osservare gli sviluppi del processo di allargamento europeo che da anni ci intrattiene con la pubblicazione di rapporti che probabilmente leggono in pochi, ma che da adesso in poi, mentre l’alleato riluttante lamenta la nostra inerzia e minaccia ritorsioni, assumono tutto un altro significato. Con la Russia oltre le porte dell’Ucraina il dossier di allargamento dell’UE alla Moldavia è molto più che un tema da addetti ai lavori. E’ una scelta esistenziale. Non è un caso che la Moldavia sia entrata insieme all’Ucraina fra i paesi candidati nel dicembre 2023. Altrettanto esistenziale è l’annoso problema dell’ingresso della Turchia, grande produttrice di droni e porta orientale in Europa, da dove passa molto gas e anche molti problemi.
Questi, insieme a Georgia e Balcani occidentali (il composito mondo che include Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Nord Macedonia e Serbia) compongono l’elenco dei Paesi candidati, sul quale l’Europa rendicontava ai suoi concittadini distratti alla fine dell’ottobre scorso.
Il dossier è sempre aperto, ma adesso bisognerà sul serio decidere cosa farne. Peccato che in tutto questo dibattere di armi e arsenali sembra che solo pochi si pongano il problema. Le notizie di cronaca sull’allargamento UE scarseggiano e molte risalgono a mesi fa, quando il Consiglio degli Affari generali ha approvato le conclusioni della Commissione in ottobre. Al contrario, le cronache sono piene di discussioni e appelli al riarmo “difensivo”. Sorge il sospetto che le élite europee coltivino il retropensiero che il destino dell’Europa sia l’assedio, non lo sviluppo. Ma chi vorrebbe vivere dentro una cittadella fortificata?
L’idea che l’Europa possa diventare grande sviluppando (nuovamente, dato il nostro lungo passato bellico e bellicoso) il mestiere delle armi, senza per giunta neanche doverle utilizzare, nasconde parecchie complicazioni e rivela anche una certa fragilità di vedute. In un mondo in cui le vecchie categorie della potenza – quindi lo spazio fisico, la popolazione, etc. – tornano sul tavolo della storia, l’UE dovrebbe innanzitutto puntare a includere spazio e popolazioni, anche modulando secondo necessità le loro virtù, reali o potenziali che siano.
E’ chiaro che le necessità economiche non sono più l’unica posta in gioco. In ballo ormai, oltre alle esigenze di sicurezza, che i vecchi programmi di allargamento non consideravano perché mai prima di adesso l’UE si è sentita davvero in pericolo, ci sono le autentiche questioni esistenziali: i valori europei. I diritti civili, quindi, ampiamente intesi.
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Su questo campo l’UE dovrà combattere la sua battaglia, sapendo che la sua sponda orientale ha sistemi politici che non mettono in primo piano, e neanche in secondo, questioni come la libertà di stampa o di manifestare. Si dovrà districare un intricatissimo trade-off che ne incorpora un secondo: quello fra libertà e sicurezza e quello fra espansione e assedio.
Prima ancora di capire se ci può andar bene riprendere il discorso con la Turchia per il suo ingresso nell’UE, a fronte dei comportamenti anche recenti che quel governo assume nei confronti delle opposizioni, dobbiamo capire fino a che punto, dentro i nostri confini, siamo disposti ad accettare che i nostri diritti civili siano compressi dalle ragioni della sicurezza. E poi dobbiamo dire con franchezza se desideriamo alzare mura fortificate, e quindi difenderci e basta, o diventare inclusivi, e quindi aprirci per espanderci. Solo la risposta a queste domande, che ogni europeo dovrebbe farsi, ci mette nelle condizioni di decidere se diventare grandi oppure no. E soprattutto riflettere su come riuscire.
Priorità strategiche
Al momento non sembra affatto che siamo a questo punto. A rileggere le conclusioni del Consiglio degli Affari Generali del dicembre scorso la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un lessico politico non ancora aggiornato dall’attualità. Nel frattempo, il presidente Trump ha sferrato un colpo fortissimo al sistema mondiale degli scambi, con il suo “Liberation Day” fatto di tariffe. Quindi leggere questo documento oggi, a distanza di mesi, serve solo a ricordarci quali erano le priorità dell’UE prima che la nuova amministrazione USA assumesse la sua responsabilità di governo.
E tuttavia, alcuni spunti sono ancora molto attuali. Viene ribadita, ad esempio, la convinzione che “la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina sottolinea l’importanza dell’allargamento come priorità strategica per l’UE”. Il Consiglio “ribadisce il suo impegno pieno e inequivocabile nei confronti della prospettiva di adesione all’UE dei Balcani occidentali, dell’Ucraina e della Moldavia”, mentre la Turchia rimane un “paese candidato e un partner chiave in molte aree di comune interesse”. Quanto alla Georgia, le ultime decisioni del governo locale, che ha sospeso la procedura di adesione all’UU fino al 2028, sono sufficienti a capire dove si collochi una delle nuove possibili linee di faglia della costruzione europea.
Il Consiglio ha ribadito che “i principali parametri di riferimento in base ai quali vengono valutati i progressi verso l’adesione all’UE continuano a essere i risultati di riforme durature e irreversibili nei settori fondamentali, tra cui lo Stato di diritto e i diritti fondamentali, il funzionamento delle istituzioni democratiche, la pubblica amministrazione e i criteri economici”. Last but not least, viene da dire. O forse non più. All’economia il documento dedica solo poche righe, limitandosi ad osservare che “la maggior parte delle economie dei partner hanno dimostrato una notevole resilienza nonostante la guerra di aggressione in corso della Russia contro l’Ucraina” e invitandoli a proseguire la strada delle riforme. Pura prammatica.
I Balcani occidentali, luogo di memorie dolorose, meritano invece addirittura una menzione a parte, con l’auspicio che si arrivi a buone relazioni di vicinato fra loro e a una cooperazione regionale. Tema addirittura strategico per noi italiani, come ha ricordato di recente il nostro ministro degli Esteri ribadendo l’impegno del governo “per accelerare i tempi dell’adesione dei Balcani occidentali all’Unione Europea”. Ma la storia ci ricorda quanto sia difficile stabilizzare quella regione.
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Sul versante della sicurezza, il Consiglio ha ricordato ai Paesi candidati l’importanza di aderire alla Common Foreign and Security Policy (CFSP), un insieme di principi e iniziative europee divenute di stretta attualità dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Non meno importante, sostenere la sfida delle minacce ibride, che ormai fanno parte del panorama bellico contemporaneo.
Le conclusioni del Consiglio ci dicono molto del passato, ossia di come si sia vissuto l’allargamento, ma assai poco di come in futuro questo processo verrà condotto. Nelle sue prolusioni, il documento fa riferimento all’Agenda strategica 2024-2029, pubblicata nel giugno scorso al termine di un percorso iniziato al vertice spagnolo di Granada nell’ottobre del 2023. Preistoria, praticamente. La storia è intanto arrivata (o tornata) e adesso queste priorità strategiche dovranno sicuramente essere riesaminate. A cominciare proprio dal concetto di allargamento, che magari sarà anche in grado di uscire dalla visione ormai desueta che ancora si indovina dai rapporti ufficiali.
Allargamento di visioni
Se guardiamo la storia degli ultimi decenni, osserviamo infatti che l’unica strategia di allargamento che l’Europa ha perseguito è stata verso Est (o in pochi casi Sud-Est). Ancora oggi i Paesi candidati sono tutti sul versante orientale. Una visione angusta, che trascura la circostanza che il sub-continente euro-asiatico ha una chiara proiezione anche verso il Mediterraneo, l’Atlantico e l’Artico.
Finora si è guardato ad Est perché è evidentemente la direzione più prossima. Ma l’UE avrebbe dovuto chiedersi come gestire l’ingombrante vicino russo verso cui si è diretta quasi come se non ci fosse, salvo scoprire negli ultimi tre anni che c’è eccome. Un’autentica strategia di allargamento avrebbe dovuto considerare questo piccolo problema, a meno che non si pensasse che anche la Russia potesse in qualche modo partecipare e far parte dell’Unione. Ma oggi?
Un’Europa che volesse diventare grande, anche nello spazio, dovrebbe innanzitutto trovare un equilibrio con il vicino scomodo e insieme definire una strategia di allargamento del tavolo da gioco. Se l’Europa è, come viene sempre ripetuto, soprattutto una comunità di valori, cosa impedisce ai leader europei di perseguire una strategia di allargamento che vada anche oltre la prossimità geografica? Perché non proporre al Canada, ad esempio, di partecipare alla costruzione dell’Europa?
Non solo. I primi interlocutori con i quali l’UE dovrebbe sperimentare nuove strategie di allargamento dovrebbero essere i Paesi che ancora oggi sono lontani pur essendo molto prossimi. Come Svizzera e Norvegia, appunto. Oppure l’Islanda, visto che il quadrante dell’Artico è tornato prepotentemente d’attualità con l’amministrazione Trump.
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E poi c’è il vasto mondo che si affaccia sul Mediterraneo orientale e meridionale: quindi nord Africa e Medio Oriente. Non esiste un passato d’Europa dove non sia stato presente il Mediterraneo, non può esistere perciò un futuro che lo trascuri.
Si tratta quindi di “allargare” l’idea di allargamento che l’UE ha perseguito finora, ricordando che l’espansione può avvenire anche lasciando immutate le frontiere: espandendo i collegamenti.
Il fatto che l’Europa oggi si concentri sulla difesa non dovrebbe generare un atteggiamento difensivo nei confronti dell’idea che l’Europa ha di sé stessa, ma, al contrario, un atteggiamento affermativo, capace di generare un’offerta politica seducente per le tante realtà che vivono intorno a noi e condividono i valori della nostra comunità e ambiscono a parteciparvi. Almeno se l’Europa crede ancora in sé stessa. E anche questo lo scopriremo molto presto.
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