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La Spagna: un indicatore dello stato di salute dell’Europa

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Quella che solo cinque anni fa era giudicata l’economia più in salute dell’Unione Europea si è trasformata in uno degli elementi più destabilizzanti della già traballante eurozona: lo stress a cui è sottoposto il sistema economico spagnolo ha radici sia nella pessima salute dei bilanci pubblici, sia nella fragilità del settore finanziario.

La crisi ha colpito i pilastri fondamentali dell’economia iberica. Il mercato immobiliare, cresciuto ben oltre i limiti di un naturale sviluppo, è scoppiato, con conseguenze a cascata sulle banche, promotrici delle operazioni edilizie. La stretta creditizia che ne è seguita ha condizionato duramente il portafoglio degli spagnoli: l’aumento dei consumi registrato negli anni precedenti poggiava infatti su un facilissimo accesso al credito bancario. La contrazione del settore edile e di quello dei servizi ha fatto esplodere la disoccupazione. Tutti questi fattori hanno infine mandato in rosso i bilanci delle amministrazioni pubbliche, costrette a pagare maggiori prestazioni sociali a fronte di entrate minori.

Le elezioni anticipate del novembre 2011 hanno dato la maggioranza assoluta alla destra del Partido Popular (PP) dopo due legislature socialiste. L’ex premier José Luis Rodríguez Zapatero era accusato dall’opinione pubblica di aver sottovalutato la crisi aggravandone gli esiti – “siamo nella Champions League dell’economia”, dichiarava nel 2007. La situazione attuale è piuttosto quella di una zona retrocessione.

Ma la parte della cittadinanza che aveva creduto nel cambiamento di governo come possibile soluzione anti-crisi ha presto dovuto ricredersi. Il nuovo esecutivo di Mariano Rajoy ha continuato con più decisione del precedente sulla via dei tagli lacrime e sangue, aumento delle tasse e flessibilizzazione del mercato del lavoro. Si è poi impegnato a imbrigliare la spesa delle amministrazioni regionali, caratterizzate da numerose e diseguali competenze spesso fuori dal controllo del governo centrale. Tuttavia, i conti non sono migliorati. Il tasso di disoccupazione vola ormai verso il 25%, e si prevede che la recessione durerà ancora due anni.

Questo peggioramento, che ha portato Rajoy a negoziare con i partner europei un percorso di avvicinamento al pareggio di bilancio molto più lento di quanto promesso in precedenza, ha coinciso con la “scoperta” dell’insostenibilità dei conti di molte banche del paese. Il sistema bancario spagnolo è a forte rischio proprio perché lo scoppio della bolla immobiliare ha azzerato il valore di molti degli asset posseduti dagli istituti di credito: se prima le garanzie per la solvenza delle banche erano le centinaia di migliaia di nuove case che si costruivano e vendevano a prezzi crescenti (tra il 1996 e il 2006 il valore degli immobili è cresciuto del 160%), oggi le case restano invendute – e in stock ce ne sono milioni. A completare il quadro fosco c’è l’aumento dell’insolvenza da parte dei cittadini e delle imprese, che grazie alla crisi non riescono più a restituire i crediti troppo generosamente concessi negli scorsi anni.

Sia il precedente governo che l’attuale hanno tentato di rimediare facilitando la fusione di banche troppo cresciute in questi anni: se le convergenze partitiche regionali hanno facilitato il compito dal punto di vista politico, la decisione di evitare il fallimento di questi istituti di credito si prospetta invece come un salasso dal punto di vista economico. L’Institute of International Finance calcola l’esposizione del sistema finanziario spagnolo verso il settore immobiliare in 320 miliardi di euro.

È emblematica a questo proposito la vicenda di Bankia: la conglomerata nata nel dicembre 2010 dalla fusione di sette banche regionali è lo specchio dell’intreccio politico-economico alla base prima del boom e ora della crisi finanziaria spagnola. Gli istituti principali che vi sono accorpati sono Caja Madrid, socio di maggioranza, controllata dal governo regionale della capitale (dunque, nell’ultimo ventennio, dal Partido Popular), e la valenciana Bancaja. Madrid e Valencia sono tra le regioni dove la crescita del settore edilizio negli anni passati è stata più rapida e vorace, e gli investimenti bancari vi hanno giocato un ruolo di primo piano. Rodrigo Rato (ex direttore del FMI), alla guida di Bankia fino al mese scorso, è stato ministro dell’Economia dei governi popolari di José Maria Aznar dal 1996 al 2004: il nuovo presidente, José Ignacio Goirigolzarri, dal profilo più tecnico e meno ingombrante, è stato comunque scelto dal ministero dell’economia. Il conflitto di potere tra governo e banca centrale sul controllo della gestione della crisi ha infine portato alle dimissioni anticipate del direttore del Banco de España, Miguel Fernández Ordóñez

Bankia, con 400.000 azionisti e dieci milioni di clienti, è stata travolta dalla fine della febbre del mattone: gli asset “problematici” ammontano a 32 miliardi di euro su 37 complessivi di portafoglio immobiliare, e servono subito 19 miliardi per evitare il fallimento. Lo stato spagnolo era intervenuto già al momento della nascita di Bankia con un prestito di 4,6 miliardi. Di fronte all’impossibilità di ripagarlo, il prestito è stato trasformato in azioni, e lo stato è passato quindi a controllare di diritto l’entità separata che raggruppa gli asset più tossici della banca, e di fatto la banca stessa: Bankia e i suoi debiti sono stati dunque nazionalizzati.

Come evitare un collasso dolorosissimo tanto per l’economia del paese quanto per il partito di governo? Il piano per ricapitalizzare Bankia attraverso titoli del debito pubblico è stato bocciato dalla Banca Centrale Europea. Alla base del rifiuto è la crescita vertiginosa dei rendimenti dei bonos spagnoli, ormai stabili al di sopra del 6% e troppo vicini alla soglia dell’insostenibilità. È tramontata anche l’ipotesi di una maggiore iniezione di liquidità da parte della BCE: l’esposizione degli istituti di credito spagnoli (già abbondantemente sostenuti da Francoforte) è troppo grande per essere coperta dalla Banca Centrale secondo le sue attuali prerogative. La Spagna ricorrerà dunque al Fondo salva-stati, a cui hanno già attinto Grecia, Irlanda e Portogallo, per una cifra pari a 100 miliardi – anche se per alcuni analisti si tratta solo di una prima tranche.

È la soluzione che Madrid ha cercato di evitare ad ogni costo, ma che Berlino preferisce. La concordanza finora abbastanza stabile tra Rajoy e Angela Merkel è saltata: il premier spagnolo, pochi giorni fa, si è detto per la prima volta favorevole agli Eurobond, raggiungendo dunque su questo punto controverso il fronte italo-francese e dei partiti socialdemocratici. L’intenzione è quella di spingere la Cancelliera ad accettare il principio che siano direttamente le banche e non il governo spagnolo a dover ricorrere al Fondo (e a doverne dunque rispettare le rigide regole). In tal modo la pressione si sposterebbe sui bilanci delle banche e delle imprese, ma i conti pubblici respirerebbero; inoltre Rajoy eviterebbe di pagare il costo politico del commissariamento diretto del bilancio dello stato e delle successive politiche impopolari.

Su questo sfondo, l’opzione di formare un governo tecnico ad ampia base parlamentare per far fronte al periodo di emergenza non sarebbe sgradita all’opinione pubblica. Per Mariano Rajoy si tratta di resistere almeno fino al voto greco del 17 giugno, quando l’attenzione di tutti sarà rivolta verso un fronte ancora più caldo. Nel frattempo, la Spagna continua a pagare un durissimo prezzo a una crisi che ne ha investito in pieno il modello economico; ma ancora più ampiamente, la gestione di questo ulteriore elemento di disgregazione del sistema finanziario continentale metterà a dura prova gli strumenti di salvataggio fin qui approntati dall’Unione Europea.