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Il quadro palestinese tra la nuova crisi dell’ANP e il voto egiziano

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Negli ultimi mesi si è riacceso il dibattito, interno e internazionale, sul futuro dell’Autorità Nazionale Palestinese. A metà aprile, il gabinetto ha chiesto ufficialmente ai governi arabi di rinnovare i propri sforzi in termini di donazioni in modo che l’ANP riesca a erogare i salari dei dipendenti pubblici. Il personale docente e amministrativo delle università è in sciopero da alcuni giorni. L’amministrazione pubblica conta attualmente in Palestina 170.000 persone, ai cui costi sul bilancio dell’ANP va ad aggiungersi un numero crescente di pensionati. In marzo, nel timore che il deficit dell’ANP e la sua mancanza di liquidità possa compromettere l’ordine pubblico, si è mossa la Commissione Europea, che ha erogato un contributo speciale di 22,5 milioni di dollari a parziale copertura di salari e pensioni di circa 84.000 di queste persone. Tra i 170.000 dipendenti pubblici, peraltro, sono compresi anche amministratori di Fatah presenti nella Striscia di Gaza a cui dal 2007 è impedito sistematicamente di lavorare, ma che pure continuano a percepire uno stipendio per assicurare a Fatah un minimo di influenza nella Striscia.

L’ANP ha recentemente denunciato di aver versato sette miliardi di dollari a Gaza a “fondo perduto”, spendendo così annualmente circa il 40% del proprio bilancio. Hamas non investirebbe queste risorse sull’educazione o l’erogazione di servizi essenziali alla popolazione, ma li terrebbe per sé e per la sua ala militare. A ciò si aggiunge il problema della riscossione delle tasse: l’ANP accusa Hamas di aver contribuito solo per il 2% alle entrate del 2011. Le accuse, ovviamente, vengono puntualmente smentite dai portavoce di Hamas.

La situazione è ovviamente resa ancora più grave dallo stallo dei negoziati per la riunificazione con Hamas: data la dipendenza dell’ANP dalla generosità internazionale, raddoppiare i numeri dell’amministrazione palestinese appare come un costo sempre meno giustificabile in concomitanza con la stretta sui bilanci dei paesi occidentali.

Su tale sfondo, appare sempre più chiaro a tutti i donors internazionali che il bilancio dell’ANP non è più sostenibile: solo per il 2012 il debito totale sarebbe pari a 1,3 miliardi di dollari. È inoltre in corso un braccio di ferro tra il presidente Obama e il Congresso sulla richiesta di sospensione degli aiuti americani all’ANP; se dovesse passare la linea dei “falchi” al Congresso, resterebbe per il governo della Cisgiordania soltanto l’opzione di una donazione “araba”, ovvero proveniente dai paesi del Golfo – stante che dalla Siria in piena guerra civile e da un Egitto post-rivoluzionario non vi sono da attendere grandi aiuti economici.

In questo clima difficile, l’elettorato di Fatah è sempre più scontento della situazione economica, sfiduciato nei confronti dei vertici politici e pessimista sull’ipotesi di nuovi negoziati. La “base” nella West Bank (come a Gaza) è sempre più convinta che l’obiettivo originario dell’OLP/ANP non sia più perseguibile, e che sia arrivato infine il momento di aprire un serio dibattito sull’utilità dell’ANP al fine della creazione di uno Stato indipendente. Viene infatti messo in discussione l’obiettivo stesso racchiuso nella formula “due Stati per due popoli”, perché quasi certamente non più realistico.

Vari gruppi palestinesi di opinione e di società civile organizzata (sia nei Territori sia nei campi profughi in Libano) invocano oggi lo smantellamento dell’ANP come unico strumento per modificare lo status quo imposto da Israele: la tesi è che solo tornando alla situazione precedente agli Accordi di Oslo (e accantonando così vent’anni di negoziati) lsraele sarebbe costretto a esprimersi sulla condizione giuridica dei Territori, annettendoli oppure palesando il proprio regime di occupazione militare. “Nei venti anni intercorsi dagli Accordi di Oslo ad oggi”, ha dichiarato al quotidiano paletsinese Ma’an News Ibrahim Shikaki, lettore all’Università di al-Quds a Gerusalemme, “l’Autorità Palestinese si è trasformata da governo con un mandato collettivo (quello di liberare la Palestina, ndr) a un governo che si preoccupa solo della propria sopravvivenza, riscuotendo le tasse e pagando i salari”. La soluzione radicale dello smantellamento dell’ANP è appoggiata anche da molti palestinesi della diaspora, come lo scrittore Jafar M. Ramini, e da osservatori nel resto del mondo arabo, come la redazione egiziana di al-Ahram, che ha recentemente denunciato i “venti anni perduti” dell’ANP in un lungo articolo di Hasan Afif El-Hasan.

I giovani palestinesi che appena un anno fa, il 15 marzo 2011, marciarono in una manifestazione a Gaza City e Ramallah invocando a gran voce l’unità nazionale, oggi appaiono scoraggiati, e comunque convinti che Hamas e l’ANP sono ugualmente corrotte. La diffusa percezione è poi che qualsiasi fermento insurrezionale (in quanto assimilabile a fenomeni di “terrorismo”) sarebbe immediatamente represso dalla polizia palestinese, addestrata dal generale americano Keith Dayton.

In questo quadro, è nella Striscia di Gaza che potrebbe aprirsi un “fronte nuovo” per Israele: le  tensioni militari e le minacce terroristiche si sono infatti intensificate lungo il confine con l’Egitto, a fronte di un Nord (confine siro-libanese con Israele) relativamente tranquillo. Alcuni membri delle forze armate egiziane hanno dato voce alla preoccupazione che Israele possa attaccare nuovamente, e occupare una quarta volta, il Sinai. Ad oggi, il governo Netanyahu ha voluto mantenere bassi i toni della polemica, ma resta la netta sensazione che l’Egitto si stia allontanando da Israele e che il Sinai si stia gradualmente rimilitarizzando.

È in corso un dibattito sulla riapertura del valico di Rafah tra le forze politiche egiziane nel contesto della campagna presidenziale: gli ultra-conservatori salafiti, con lo sceicco Hazem Salah Abu Ismail come candidato, hanno dichiarato che intendono aprire il varco di Rafah e rivedere integralmente i rapporti con Israele; il partito “Giustizia e Libertà”, espressione dei Fratelli musulmani, con il loro nuovo candidato Mohamed Morsi, hanno annunciato l’intenzione di sottoporre il Trattato di pace a referendum popolare, pur nel rispetto degli impegni internazionali dell’Egitto; sulla stessa posizione anche l’ex membro dei Fratelli, Aboul Fotouh, che corre da indipendente; infine Amr Moussa, il candidato laico, si è dichiarato favorevole alla revisione della clausola che vieta attualmente il dispiegamento delle truppe egiziane in Sinai. Da notare che Omar Suleiman, uomo-chiave del vecchio regime e unico tra i candidati ad essere considerato vicino a Israele, è stato definitivamente squalificato dalla competizione presidenziale.

In sostanza, l’esito delle elezioni egiziane potrebbe alterare gli equilibri palestinesi: se dovesse vincere il candidato salafita, Hamas verrebbe avvantaggiata rispetto all’ANP, integrandosi potenzialmente in quel movimento di rinnovamento regionale che ha profondamente influenzato in questi mesi buona parte del Medio Oriente. Nel clima politico apparentemente apatico e scoraggiato che prevale oggi in Cisgiordania, l’intera equazione palestinese potrebbe dunque cambiare.