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I rischi dell’introspezione in tempo di crisi

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Il discorso di Obama sullo Stato dell’Unione ha fugato ogni dubbio, mentre la corsa alla presidenziali americane è entrata nel vivo e i candidati repubblicani duellano per assicurarsi la nomination, il presidente ha messo da parte lo stile freddo e distaccato rimproveratogli da molti, per ritrovare la passione e la foga che furono del candidato. E’ da mesi che i maggiori network televisivi come la CNN e Fox News allestiscono la scena per quella che viene definita, ancora una volta, come una “elezione storica”. Il destino dell’America, vociferano stuoli di opinionisti, è la posta in gioco il prossimo novembre.

In realtà, è difficile non avvertire quest’anno una certa spossatezza latente. In tempo di crisi, il provincialismo è un rischio reale. Le prossime presidenziali potrebbero difatti passare alla storia come tra le più introverse degli ultimi decenni. Da un lato, il terreno dello scontro pare ben tracciato: come rilanciare l’occupazione e la crescita. “E’ l’economia, stupido!”, riassumono alcuni parafrasando il Clinton del ‘92. Dall’altro, la volontà di rimettere in piedi il gigante americano fa da cornice al dibattito interno. Ma per ora le risposte date a questa sfida sono state in larga misura introspettive. Mitt Romney e Newt Gingrich vogliono una potenza senza remore e pudori, ma non propongono una Nuova America, capace di rinnovarsi nel mondo trasformato del 21esimo secolo. L’America che oppongono a quella incarnata da Obama è invece quella delle origini, “pura” – poco conta se sia mai davvero esistita o meno. Ma una certa inquietudine pare non aver risparmiato nessuno, neanche il Presidente in carica. Sia lui che i suoi oppositori ripetono  incessantemente, con l’insistenza tipica di chi cerca di convincere se stesso, che il declino dell’America non è un destino inevitabile. Dietro gli accorati appelli ad un “rinnovamento”, pare esservi un sentimento diffuso di reale apprensione per il futuro del paese.

Mentre l’America prova a ritrovare se stessa, il mondo è tutto d’un tratto diventato lo specchio in cui gli Stati Uniti vedono riflessa la loro debolezza, non più il luogo dove trovano conferme della loro grandezza. Tra i candidati repubblicani, Ron Paul vuole un disimpegno totale dalla scena internazionale. Gingrich e Romney dipingono un’America sotto assedio, senza veri amici al di fuori di Israele. La nozione, un tempo così in voga, che la globalizzazione sia un fattore di pace e prosperità è pressoché scomparsa anche dalla retorica obamiana. Nel discorso sullo Stato dell’Unione, Obama ha infatti criticato senza mezzi termini la scorrettezza della politica industriale e commerciale della Cina, e collegato in modo mai così diretto il tasso di disoccupazione interno ai posti di lavoro portati all’estero da aziende americane accusate di aver tradito il popolo americano.   

In un dibattito pubblico sempre più angosciato, gli immigrati messicani, gli Imam musulmani, gli ingegneri indiani, gli operai cinesi, e i socialdemocratici europei rischiano di essere vicendevolmente rappresentati come una sfida, se non un pericolo, per il modello di vita americano.  Il paradosso sta proprio in un’America che si considera sempre più vittima del mondo globalizzato che essa stessa ha creato. L’ascesa dell’economie asiatiche è stata alimentata senza dubbio dall’applicazione dei principi del capitalismo promossi dagli USA. Invece che circospezione, la tanto attesa trasformazione del mondo arabo dovrebbe teoricamente infondere fiducia in un’America che è stata da sempre paladina dell’universalità dei diritti dell’uomo e  dei principi democratici. In passato, l’ambizione dell’America è stata quella di modellare il mondo a sua immagine e somiglianza. Quella di oggi invece è tentata di girare le spalle al mondo come se non gradisse la vista della sua immagine riflessa.

Se gli Stati Uniti sono diventati più introspettivi, il resto del mondo sembra al contempo essere diventato meno interessato al futuro dell’America. Il governo cinese pare avere risposto con una compostezza inattesa al recente annuncio dell’amministrazione Obama di un riorientamento strategico verso il Pacifico. Ai loro occhi, l’America ha sempre avuto mire in Asia, da quando assunse il controllo delle Filippine alla fine del 19esimo secolo alle guerre in Corea e Vietnam. Anche gli europei sembrano assai meno interessati di un tempo alle vicende americane. Alle prese con la loro di crisi, sembrano tra l’altro non avere questa volta nessuno da ammirare particolarmente o detestare: Mitt Romney dopo tutto non è Bush, mentre Obama ha perso parte del fascino che lo rese così popolare nel 2008. Nel frattempo, un Medio Oriente in subbuglio continua a cambiare di giorno in giorno senza però accessi di anti-americanismo. Più in generale, l’idea che l’America sia in declino si è fatta strada anche là dove la forza attrattiva del modello americano era più forte. Che bisogno c’è dunque, sembrano chiedersi in molti, di preoccuparsi eccessivamente di chi sarà il prossimo presidente a varcare la soglia della Casa Bianca?

In tempo di crisi, avvitarsi sui propri problemi, trascurando ciò che accade tutto attorno, è la strada più facile da imboccare. Ma è anche un cammino che porta poco lontano. Oltre un secolo di potenza americana ha reso il destino degli Stati Uniti inestricabilmente intrecciato a quello del resto del mondo, e viceversa. Ma la campagna presidenziale in corso ha invece svoltato pericolosamente in un vicolo cieco: gli interessi economici e l’identità stessa dell’America sono spesso contrastati, o definiti in antitesi, a quelli del resto del mondo. Lo stesso discorso di Obama del 24 gennaio di fronte al Congresso riunito è stato tra i più provinciali della sua presidenza, al punto da suonare quasi nazionalistico, nonostante l’usuale stile sofisticato del linguaggio. Il rischio è il restringimento di ogni spazio rimasto per un confronto pragmatico e aperto sulle sfide e le opportunità dell’economia globale, il significato della crescita dei paesi dell’Asia, le cause profonde delle difficoltà economiche e politiche europee, e la complessità di un Medio Oriente le cui dinamiche interne certo non possono essere ridotte a quelle di una semplice competizione tra riformisti ed islamisti.

Il cinismo e l’apatia di chi, dall’esterno, osserva quasi indifferente l’America sono anch’essi poco lungimiranti. Gli europei, ora preoccupati del declassamento dell’Europa tra le priorità del resto del mondo, farebbero bene a capire che il loro futuro dipende in realtà in buona misura dal successo della nuova strategia americana nel Pacifico. L’economia degli Stati Uniti, anche nel nuovo contesto di crisi, rimarrà comunque un termometro della salute dell’economia globale. Declino o meno, quello che dirà e farà il prossimo inquilino della Casa Bianca, chiunque egli sia, continuerà ad avere un impatto diretto e profondo sulla sicurezza e la prosperità del mondo intero. La posta in gioco alle prossime presidenziali è tutt’altro che diminuita. Occhi puntati, dunque.