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Un perdente e due vincitori: la Palestina del giorno dopo

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Con la riunione del 26 settembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite inizia a discutere la richiesta di pieno riconoscimento dello Stato palestinese. Siamo all’inizio di una battaglia diplomatica dagli esiti incerti, ma quanto avvenuto nell’ultima settimana consente già di trarre delle conclusioni su come sono cambiati gli equilibri in Medio Oriente: Abu Mazen e Benjamin Netanyahu escono rafforzati, mentre Barack Obama si è indebolito a seguito del duello di interventi e dichiarazioni nel Palazzo di Vetro.

Il rafforzamento di Abu Mazen nasce dal fatto che prima di arrivare a New York era un leader impopolare in Cisgiordania, neanche riconosciuto come tale nella Striscia di Gaza governata da Hamas e considerato in genere sulla via del tramonto, anche perché incapace di uscire dallo stallo del negoziato con Israele. Adesso invece le piazze di Ramallah, Nablus e Jenin sono piene di suoi ritratti, viene osannato dalla popolazione in Cisgiordania come l’eroe della “Primavera palestinese” e perfino Hamas ha ammorbidito le critiche avanzate alla vigilia al passo compiuto all’ONU. Senza contare che dozzine di Stati arabi, africani, asiatici e latinoamericani non aspettano altro che votare “sì” alla nascita della nuova “Palestina” mentre gli europei sono divisi su come parlargli ed il Quartetto (ONU, USA, UE e Russia) è riunito in seduta permanente per redigere nuove proposte negoziali mirate a convincerlo a tornare alla trattativa diretta. Da leader in declino, Abu Mazen si è trasformato in nuovo protagonista della scena internazionale e il richiamo fatto dal podio dell’Assemblea generale al discorso pronunciato da Yasser Arafat nel 1974 – e in particolare alla frase “Non lasciate cadere questo ramoscello d’ulivo dalla mia mano…” pronunciata all’epoca con la pistola alla cintola – paventa addirittura la sua trasformazione in capo di una nuova generazione di rivolte, armate o meno, contro lo Stato ebraico.

Ma come spesso avviene in Medio Oriente il rafforzamento di uno dei contendenti comporta l’identico effetto sul rivale. Benjamin Netanyahu infatti ha ritrovato alla guida del governo israeliano smalto e iniziativa. Il merito è proprio di Abu Mazen perché la decisione di ricorrere all’ONU con un atto unilaterale costituisce una lampante violazione degli Accordi di Oslo del 1993 – siglati nel Giardino delle Rose della Casa Bianca da Yithak Rabin e Yasser Arafat sotto l’egida del presidente americano Bill Clinton – che prevedono il conseguimento dell’obiettivo dei “due popoli e due Stati” attraverso il negoziato diretto. Da qui il fatto che il premier di Gerusalemme ha avuto gioco facile nel presentarsi dal podio dell’Assemblea generale come l’unico intenzionato a perseguire la pace con il negoziato diretto, trovandosi sostenuto dall’amministrazione Obama e dall’Europa come mai avvenuto dal suo insediamento al governo. 

Se il tema degli insediamenti diventa improvvisamente secondario, Obama rinuncia a invocare i confini del 1967 e chiede con insistenza di essere accolto in Israele, il Pentagono sblocca armamenti – come le bombe antibunker – congelati dai tempi dell’amministrazione Bush e il congresso fa quadrato attorno a Israele, è perché il blitz diplomatico di Abu Mazen ha messo i palestinesi nella condizione di essere i responsabili del corto circuito del processo di pace. Con tanto di sfida diretta a Obama, che nel suo intervento all’Assemblea generale aveva ammonito il leader dell’Autorità nazionale palestinese a “evitare scorciatoie” al riconoscimento reciproco con Israele.

L’indebolimento del presidente americano è la conseguenza di tali sviluppi: la sua scommessa, nel 2009, fu di aprire ai palestinesi per guadagnarne la fiducia al fine di ottenere concessioni utili a spingere sua volta Israele a fare proprie concessioni. Ma l’intera architettura negoziale è venuta meno a causa dei veti incrociati fra Abu Mazen e Benjamin Netanyahu, obbligando Obama a ripiegare sulla tradizionale posizione americana di sostegno all’alleato israeliano, accompagnata dall’attuale assenza di un piano per rilanciare il negoziato. Come David Ignatius ha ben riassunto sul Washington Post in questo momento “Obama ha scelto di giocare in difesa in Medio Oriente”, rinunciando all’iniziativa.

La sovrapposizione fra rafforzamento dei contendenti e indebolimento del mediatore è il nuovo scenario di fronte a cui ci troviamo in Medio Oriente. Può portare ad un’esplosione di violenza, proprio come avvenne nel settembre del 2000 quando Arafat tornò dal fallimento di Camp David scatenando la seconda Intifada a colpi di kamikaze, oppure a nuovi equilibri strategici che verranno determinati da quale potenza regionale prevarrà, fra quelle che hanno deciso di erigersi a garanti-protettori dell’ANP, sostituendosi agli Stati Uniti. Sono almeno quattro le capitali che possono aspirare a tale ruolo: Ankara è quella che ha più credibilità internazionale e mezzi militari, Riad prevale per capacità di interventi economici, Il Cairo per vicinanza geografica e Teheran grazie ai legami con Hamas a Gaza. Se una di queste quattro potenze mediorientali riuscirà a incunearsi nella crisi fra Ramallah e Washington fino a diventare il più stretto alleato di Abu Mazen – e più acerrimo avversario di Benjamin Netanyahu – sarà lei ad aver ottenuto la vittoria più significativa.