international analysis and commentary

I nuovi repubblicani

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Il nostro paese, per ragioni di bilancio, non può permettersi la missione in Libia. Non è una dichiarazione della Lega. È l’affermazione con cui Jon Huntsman – ex ambasciatore a Pechino e neo-candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti – ha presentato la sua piattaforma di politica estera.

In cui rientra, insieme alla fine del mezzo impegno americano in Libia, il ritiro rapido dall’Afghanistan. In America, l’inizio della campagna elettorale per il 2012 coincide con un impulso quasi isolazionista. Sono sprezzantemente ripiegati sulle priorità domestiche i candidati dei Tea Parties. Nelle settimane scorse Rand Paul, senatore del Kentucky, ha dichiarato che l’America risparmierebbe risorse importanti per l’economia se riducesse drasticamente i suoi impegni internazionali. E ad un dibattito presidenziale nel New Hampshire Michele Bachmann, stella in ascesa della destra repubblicana, ha detto che Obama ha compiuto un errore gravissimo appoggiando la Francia in Libia. Perché lì, ha precisato, non sono in gioco interessi nazionali vitali degli Stati Uniti.

Per la prima volta da anni, una parte delle posizioni repubblicane si allontana dal neo-conservatorismo alla Bush junior ma anche dal realismo pragmatico. E torna verso una piattaforma nazionalista. Per lo storico Walter Russell Mead, l’istinto della destra populista americana combina una convinzione fideistica nella superiorità degli Stati Uniti, quale nazione “eletta”, a uno scetticismo di fondo sulla possibilità di creare un ordine internazionale di tipo liberale. L’interventismo in Nord Africa o Asia centrale non rientra in una visione del genere.

Siamo nella fase iniziale, più ideologica, della campagna presidenziale; e queste sono le posizioni di un’ala minoritaria. Che tendono a saldarsi, tuttavia, con le pulsioni della sinistra più liberale e di un’opinione pubblica stanca di impegni internazionali. Barack Obama dovrà comunque tenerne conto. Anzi, ne tiene già conto: l’effetto incrociato del problema del debito e dell’uccisione di bin Laden è di spingere la Casa Bianca verso un ritiro più veloce dall’Afghanistan. La trattativa in corso fra Washington, il governo Karzai e una parte dei talebani ne è la premessa. Dal punto di vista di un presidente di fatto già in campagna elettorale, diventa essenziale cominciare a “estrarre” l’America dalle guerre degli ultimi dieci anni, per dedicarsi alle priorità dell’economia e alla sfida geopolitica del secolo, la competizione a distanza con la Cina.

In un contesto del genere, di parziale ripiegamento dell’America, cambiano anche i conti per la NATO: gli Stati Uniti non sembrano più disposti a reggere da soli gran parte degli oneri della sicurezza occidentale. Tanto meno in Europa, continente che ha perso da tempo la vecchia centralità strategica. L’operazione in Libia, d’altra parte, ha messo a nudo tutte le lacune delle capacità di difesa europea. Washington ha reagito con insofferenza: si è sentita trascinata in un conflitto da alleati europei che non sono poi in grado di combattere. A chi voglia capire l’aria che tira conviene leggere il discorso che Robert Gates, segretario alla Difesa in uscita, ha fatto a Bruxelles il 10 giugno scorso. Il messaggio, fin troppo brutale, è che i problemi fiscali valgono per tutti, anche per Washington; e che l’Europa, se vorrà salvare qualcosa dell’alleanza con gli Stati Uniti, dovrà mettere insieme le risorse nazionali e avere le capacità per cavarsela almeno nel proprio cortile di casa.

La strana guerra di Libia rischia di diventare il confine simbolico fra la vecchia sicurezza occidentale, garantita e anche pagata quasi interamente dagli Stati Uniti, e il nuovo vuoto di potere alle nostre frontiere meridionali: un vuoto rispetto a cui l’Europa che abbiamo non basta e l’America che avevamo non c’è più. In queste condizioni una NATO più europea servirebbe: servirebbe prima di tutto agli europei stessi, che devono spendere insieme e meglio, per riuscire a tutelare la propria sicurezza, se non possono spendere di più.