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Gli scenari per l’Egitto e il dilemma di Washington

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“Il presidente Obama ha voltato le spalle all’Egitto e al mondo arabo. Non sta compiendo alcuno sforzo reale per promuovere la democrazia nella regione.” Questa la dura critica che Mohammed El Baradei, ex segretario dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA) e possibile sfidante del presidente Hosni Mubarak alla corsa presidenziale, ha recentemente mosso all’amministrazione americana. La critica di El Baradei non è isolata, ma condivisa da numerose organizzazioni non governative attive nel paese le quali da mesi ripetono non solo che l’amministrazione Obama è del tutto indifferente alla promozione della democrazia nella regione.

Per rispondere in parte alle critiche provenienti dall’Egitto, nelle ultime settimane che prima delle elezioni della Shura, la camera bassa del parlamento egiziano che viene rinnovata il 28 novembre, qualche segnale è giunto da Washington. Il presidente Obama ha cercato di recuperare posizioni, dicendosi preoccupato per il futuro dell’Egitto e mostrandosi più serio nel richiedere garanzie a Mubarak. A confermare che il momento è delicato  è stata, tra l’altro, una riunione tenutasi a inizio novembre al National Security Council (NSC): Dan Shapiro (coordinatore della politica della Casa Bianca in Medio Oriente) Dennis Ross (consigliere del presidente per la questione iraniana e il processo di pace) e Samantha Powers (consulente del presidente in materia di diritti umani) hanno incontrato il “Working group for Egypt”, una coalizione indipendente di accademici, personaggi che hanno avuto incarichi governativi e attivisti americani, i quali hanno concordato nel dire che il Cairo non sta andando nella direzione giusta e chiedendo alla Casa Bianca una linea più assertiva.

L’Egitto resta un paese importante per gli interessi americani, non sol per il ruolo che gioca nel processo di pace israelo-palestinese, ma anche per la lotta al terrorismo, per la gestione delle relazioni con numerosi paesi della regione e per gli importanti scambi di informazioni con gli Stati Uniti tra i rispettivi servizi di intelligence. Secondo quanto dichiarato da Tamara Wittes (Deputy Assistant Secretary of State),durante una conferenza organizzata all’ambasciata americana del Cairo, il dialogo che gli Stati Uniti intrattengono con il governo egiziano si fonda su tre principi: “l’esistenza di interessi comuni da realizzare, il rispetto di valori universalmente riconosciuti e il rafforzamento dello spirito di cooperazione bilaterale.”

Alla luce di questi interessi condivisi, gli obiettivi americani riguardano sia le prossime elezioni (che non si preannunciano certo limpide) sia la fase post-Mubarak. Per garantire maggior trasparenza nel processo elettorale la Casa Bianca sta incalzando il governo di egiziano affinché autorizzi, come fece nel 2005, l’ingresso di osservatori internazionali che monitorizzino le votazioni. Il Cairo continua a rifiutarsi dicendo che questi interferirebbero con l’attività svolta dagli osservatori nazionali e che tutto ciò minerebbe la sovranità nazionale egiziana.

Quanto al più lungo termine, come spiega Issandr El Amrani, analista politico del quotidiano egiziano AlMasry AlYoum, “adottando deliberatamente una politica di ambiguità sulla sua successione, il presidente Hosni Mubarak sta innervosendo molte persone, tanto all’interno che all’esterno del paese”.

Secondo numerosi analisti l’Egitto post-Mubarak ha davanti a sé tre eventuali scenari. Una prima possibilità, il cosiddetto scenario “russo”, non vedrebbe per il paese grandi cambiamenti. L’Egitto continuerebbe a essere governato da un raís autoritario scelto nei circoli vicini al regime attuale. Un panorama del tutto diverso sarebbe quello “iraniano”. In tal caso, come accadde a Teheran nel 1979, il governo attuale sarebbe rovesciato da una rivoluzione condotta (o quantomeno gestita) dall’opposizione islamica. Infine si parla di un terzo scenario, quello “turco”, in cui prevarrebe una parziale continuità se il regime riuscisse a rinnovarsi cooptando al suo interno i Fratelli musulmani.

Scartato lo scenario iraniano, è difficile capire quale tre le due rimanenti alternative sia la preferibile per la Casa Bianca. La Presidenza Obama dovrà mostrare fino a che punto è pronta a impegnarsi per la democratizzazione dello stagnante sistema egiziano. Il dilemma non è certo nuovo: tollerare che il regime giustifichi il suo ricorso all’autoritarismo con la minaccia dell’islamizzazione, oppure dirsi pronto ad accettare il risultato di una competizione elettorale davvero pluralista che potrebbe anche vedere il successo di istanze islamiste.