international analysis and commentary

La vittoria delle idee

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Aspenia: La crisi finanziaria, diventata rapidamente anche crisi dell’economia reale, ha messo le ali alla campagna di Obama. Questo smentisce la tesi dell’America come una “Right Nation”, per citare il titolo del famoso libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge: la tesi per cui, da Reagan in poi, il centro politico del paese si è spostato stabilmente verso destra.

Dionne: In verità, il libro di Micklethwait e Wooldridge non mi ha mai convinto, neanche quando era difficile spiegare altrimenti la rielezione di George W.Bush, nel 2004. Certo, c’è stato uno spostamento della società americana verso il centro-destra a partire dalla fine degli anni ’70. Uno spostamento consacrato dall’elezione di Ronald Reagan. Ma la verità è che gli americani sono interessati alle idee, piuttosto che alle ideologie -in particolare alle idee che funzionano. Il paese era comprensibilmente insoddisfatto della performance di Jimmy Carter: voleva cambiare, ritenendo che l’approccio democratico non funzionasse più. Questo non significa che la maggioranza degli americani fosse diventata ideologicamente reaganiana. Più semplicemente, e in modo pragmatico, voleva sperimentare una ricetta diversa, sperando in risultati migliori. Il reaganismo cominciò a declinare quando venne eletto Bill Clinton. E se nel 2000 la decisione della Corte suprema sui risultati elettorali fosse stata diversa, l’intera traiettoria politica del paese sarebbe forse cambiata. In sostanza, il mio principale punto di disaccordo con le tesi di “Right Nation” è che non ho mai pensato che la Destra fosse diventata strutturalmente egemonica in America, un paese che decide in base ai risultati delle politiche, non ai loro presupposti. Detto questo, è chiaro che abbiamo attraversato quella che può essere definita un’era conservatrice. Un’era che, politicamente, è finita con le elezioni di mid-term del 2006. La vittoria di Obama lo ha confermato. Il 2006 ha segnato una svolta decisiva non solo perché il partito democratico si è mobilitato in un modo che non accadeva probabilmente dagli anni ’30 ma anche perché il centro si è spostato questa volta nella direzione opposta, da destra a sinistra. Nel 2006, i democratici sono insomma riusciti a mobilitare tutte le proprie forze e a recuperare anche l’appoggio della “white working class”, che aveva abbandonato da decenni il Partito democratico. Ancora nel 2004, questo fattore ha contato nella sconfitta di John Kerry contro Bush.

Aspenia: Vale ancora la famosa legge di Clinton: conta l’economia e si deve vincere al centro?

Dionne: Sì, vale la legge di Clinton: si vince al centro. Ma vale anche la legge di Carl Rove: devi mobilitare la tua base. E il centro non è un luogo fisso; è un’area mobile, che dal 2006 ha cominciato appunto a spostarsi di nuovo verso sinistra. La crisi economica ha rafforzato questa tendenza: le vecchie idee sul “free-market”, sulla de-regulation, associate dai tempi di Reagan alla destra repubblicana, sono state delegittimate. Siamo diventati tutti compagni socialisti, come è stato scritto in modo ironico da qualche commentatore, dal momento in cui il Tesoro ha deciso di nazionalizzare le banche. Così, paradossalmente, siamo tornati sul terreno conosciuto ai tempi del New Deal, quando la coalizione democratica credeva nella spesa governativa e nella regolazione del mercato.

Aspenia: Ma una parte almeno dei problemi che hanno travolto i mercati finanziari americani non sono derivati da provvedimenti approvati durante la Presidenza Clinton?

Dionne: Il punto è che Bill Clinton governava ancora in un’era definita dai parametri del conservatorismo reaganiano. C’è un concetto, in proposito, bene espresso dallo storico William Leuchtenberg, secondo cui ogni presidenza degli Stati Uniti lascia dietro di sé un cono di influenza. Dagli anni ’80 in poi, le presidenze americane hanno tutte operato sotto l’influenza del reaganismo. E quindi si potrebbe concludere così: nel 2008, è finita la “Reagan shadow”, l’ombra proiettata per trent’anni dal reaganismo sul governo degli Stati Uniti.

Uno degli effetti è stato che l’America non aveva conosciuto simili livelli di disuguaglianza sociale dal 1929, il che naturalmente non lascia tranquilli sulla dimensione della crisi attuale. La priorità della presidenza Obama è da questo punto di vista obbligata: una politica redistributiva che riduca almeno in parte questi dislivelli. La ricchezza è insomma troppo concentrata, anzi direi che è estremamente concentrata. Come candidato, Obama ha dovuto essere prudente su questo punto. Ma la sua politica fiscale sarà redistributiva.

Aspenia: Quanto ha pesato la questione razziale? La maggior parte degli americani, d’altra parte, sembra avere deciso che Obama non è né nero, né bianco, ma un po’ tutte e due le cose.

Dionne: Che il fattore razza abbia pesato, ma in modo non decisivo, dimostra soltanto quanto sia cambiata l’America negli ultimi quarantacinque anni. Ricordiamoci che i movimenti civili degli anni ’60 furono determinanti nel produrre la rottura della coalizione democratica, ereditata dal New Deal. Ancora nel 1982, la gente mentiva su come avrebbe votato (il cossiddetto effetto Bradley): diceva di non essere razzista, ma non avrebbe mai votato un nero. Oggi la questione è superata per una parte della popolazione: non per la fascia più vecchia della popolazione bianca ma certamente per i giovani, e in genere per le persone che hanno meno di quarant’anni. Va aggiunto che sono cambiati anche i leader afro-americani. Anche qui siamo di fronte a una nuova generazione: Obama ne è  l’esponente, perché trascende il problema della razza, non lo vive più con gli stereotipi del passato. E’ un po’ quello che era successo con Kennedy; anche lui sfuggiva agli stereotipi tipici del cattolico irlandese.

Aspenia: Guardando al futuro, i costi fiscali dei salvataggi economici permetteranno a Obama di fare quello che ha promesso? Qual è la sua visione politica di fondo.

Dionne: Definirei il futuro con una parola: moderazione. Moderazione rispetto alle vere e proprie “cultural wars” che hanno troppo a lungo diviso l’America. Faccio degli esempi: è chiaro che il fattore religioso continuerà a contare molto, ma si ridurrà il peso politico della destra evangelica. D’altra parte, se Obama è pro-choice, sull’aborto, riconosce anche che va condotta una battaglia contro il numero degli aborti. L’America è stata lacerata da conflitti culturali dagli anni ’60. E se si tiene conto di questo, la moderazione è il vero cambiamento. In fondo, si va verso una specie di “quarta via”, un tipo di sintesi politica diversa dal clintonismo, anche per quel che riguarda la gestione dell’economia. E uno dei problemi affascinanti sarà di capire come si riconfigurerà il partito repubblicano, di fronte a un’evoluzione del genere del partito democratico. I repubblicani hanno il problema di recuperare il rapporto con la fascia più giovane della popolazione americana che prima votava per Reagan e oggi sostiene Obama.  Avrebbero bisogno di un David Cameron. Alla mobilità politica delle generazioni più giovani si aggiunge naturalmente il fattore demografico, con il peso crescente dei latinos.