international analysis and commentary

Media e rivolte sociali tra controllo e anarchia

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Non più televisione, ma internet e telefonia: sono i recenti casi di Tunisia ed Egitto, per non parlare della vicenda WikiLeaks, a spodestare la regina della comunicazione nel rapporto strategico con il sistema politico, democratico o autoritario che sia. I tentativi di oscurare la rete in Egitto rendono lampante la verità, nota peraltro ormai da tempo agli osservatori più attenti: è internet che veicola idee, che crea situazioni, che diffonde capillarmente il messaggio, la parola d’ordine. È internet il mezzo con cui il malcontento si allarga, è internet a divenire il portatore delle verità dei manifestanti e sono i telefoni cellulari tramite i messaggi SMS il collettore di raduni di popolo che, altrimenti, sarebbero stati molto meno massicci. E, come sta accadendo in Egitto, è internet che le autorità cercano di mettere fuori uso.  

Quanto telefonia e rete fossero strategici da questo punto di vista lo si era capito già guardando ai fatti di Teheran e alla rivoluzione verde iraniana: le foto da telefonino della ragazza morta nei disordini e le bandiere verdi simbolo della protesta hanno fatto il giro di televisioni, giornali e siti web, per non parlare dei blogger, fondamentali non solo per far conoscere al mondo la situazione, altrimenti passata sotto silenzio, ma anche come strumento di raccolta degli oppositori. La mobilità – che rete e tecnologia cellulare enfatizzano – permette di essere reporter e testimoni dei fatti in ogni momento e in ogni luogo: si tratta di una ulteriore forma di quel citizen journalism nato negli Stati Uniti che in Iran ieri, in Egitto, Tunisia, Albania oggi diventa strumento strategico di aggregazione e coesione sociale e politica. Non c’è ormai rivoluzione o movimento che non trovi nella telefonia cellulare e in internet uno strumento di affermazione e crescita mediatica, e non solo mediatica.

Resta senza dubbio vero che sulla maggior parte delle case in cemento de Il Cairo come di quelle ancora in fango e pietra dell’oasi di Siwa, a 700 km dalla capitale, stazionano parabole per nulla diverse da quelle di ogni altra città occidentale. Ma, evidentemente, tutto questo non basta: la rivolta per le strade egiziane è cresciuta via internet e via SMS. A tutto questo le leadership politiche del Maghreb, come tante altre, sembrano non essere ancora in grado di rispondere. La rivoluzione mediatica spiazza i vecchi leader: gli autocrati, che, contando sul tradizionale modello del controllo sulla televisione, non sono abituati a gestire un mezzo per sua natura “libero“ se non spesso anarchico, come la rete e la stessa telefonia che la supporta. Spesso, come sta accadendo in Egitto, il potere reagisce in modo illiberale, tanto da suscitare la reazione del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon a sostegno della libertà di espressione. E la televisione, pur mantenendo ancora delle potenzialità di persuasione e gestione del consenso, sembra essere diventato un mezzo “anziano” per leader ormai anziani, politicamente e anagraficamente.

Eppure in anni non lontani la televisione aveva un ruolo strategico nelle decisioni e nella gestione dei maggiori fatti politici, soprattutto nelle relazioni internazionali: la prima guerra del Golfo ebbe nelle immagini della CNN da Baghdad un importante strumento di monitoraggio politico. E ancora: Washington decise di intervenire in Somalia anche in ragione delle tremende immagini televisive sulla tragedia umanitaria dell’area. Al tempo stesso, sono state proprio le immagini dei cadaveri americani oltraggiati a far decidere all’amministrazione americana il ritiro delle truppe da Mogadiscio. E sembra sia vero, e non una battuta, il fatto che Washington, durante la rivolta di piazza Tienanmen, consultasse prima la CNN del proprio ambasciatore a Pechino.

Anche il terrorismo, nella sua prima fase, ha utilizzato la potenza televisiva, contando sull’effetto enorme delle immagini del crollo delle Twin Towers, rimbalzato ovunque nel mondo. Al Jazeera – il primo fenomeno mediatico nel mondo arabo divenuto una sorta di caposaldo della politica estera per il proprio paese– ha avuto un ruolo importante nel rilanciare le idee di Bin Laden, tanto da guadagnarsi l’ira dell’amministrazione americana nonché l’accusa di essere “l’araldo dei terroristi”. Da sempre qualunque leadership politica ha dovuto tener conto nel bene e nel male dello strategico rapporto con il mezzo televisivo.

Lo scenario è stato e continua ad essere in piena evoluzione. Barack Obama, peraltro ottimo comunicatore televisivo, ha annunciato via internet la sua discesa in campo e ha vinto la campagna elettorale attraverso un formidabile fundraising, sempre via internet. Al tempo stesso una vasta opinione pubblica araba si è formata attraverso i siti islamisti, soprattutto quelli più radicali, piuttosto che attraverso la televisione. La stessa al Qaeda ha usato e usa sempre più frequentemente internet per i suoi proclami contro l’Occidente. Non è poi un caso che la leadership cinese, oltre a preoccuparsi del controllo della televisione, sia molto attiva nel monitorare e bloccare le attività in rete, tenendo aperto ormai da tempo un contenzioso apparentemente commerciale, ma al fondo soprattutto ideologico, con il colosso americano Google.

In che modo reagiranno le leadership politiche, democratiche e non, di fronte alla massa d’urto del nuovo mezzo che domina sempre più la scena comunicativa? E la rete riuscirà a mantenere la sua natura “libera” – quella per intenderci espressa in Tunisia, Egitto, in Iran, senza arrivare alla totale anarchia? Un futuro non troppo lontano ci dirà se la regolamentazione commerciale da molti invocata per il settore non possa poi anche diventare una regolamentazione di tipo politico – istituzionale.  In realtà, di fronte ai danni che WikiLeaks ha provocato all’immagine degli Stati Uniti e del mondo occidentale – il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha definito l’episodio “l’11 settembre della diplomazia” – non sono pochi quelli che lo auspicano. Anche Bill Keller, l’editore del New York Times: in un lungo saggio-riflessione che è online racconta la sua versione sul caso WikiLeaks, sostenendo che, nonostante questo episodio e altri che potrebbero verificarsi in futuro “non arriveremo all’anarchia dell’informazione.”