international analysis and commentary

La geografia della crisi economica: aree urbane e flussi demografici

559

Come si è presentata l’America delle metropoli all’appuntamento con la Grande Recessione? E, soprattutto, come ne uscirà? Per rispondere alla prima domanda, possiamo affidarci all’edizione 2010 – i cui dati si riferiscono alla fine del 2008 – del rapporto periodico che il Metropolitan Program della Brookings Institution dedica allo stato delle prime cento aree metropolitane del paese. Per rispondere alla seconda occorrerà aspettare ancora qualche tempo. Certo, come vedremo, non mancano gli indizi. L’America è sempre più metropolitana, sottolineano i ricercatori di Brookings. Alla fine del 2008, due terzi degli americani – vale a dire 200 milioni di persone – viveva nelle prime cento aree metropolitane del paese, dove peraltro i grandi cambiamenti demografici non erano più all’orizzonte, ma nella realtà quotidiana della cronaca. Qui non occorrerà attendere il 2042 per assistere all’avvento di una società minority majority. Nelle aree metropolitane gli under 18 sono già oggi, in maggioranza, non bianchi: quindi, quel traguardo sarà qui raggiunto prima che nel resto del paese. E i grandi cambiamenti stanno tracimando dalle inner cities verso suburbia che – con l’aumento della povertà, della presenza di immigrati e delle minoranze – ha cessato per sempre di essere il regno incontrastato delle classi medie bianche. Fino a qui nulla di nuovo rispetto alle tendenze dell’ultimo decennio, che hanno visto emergere aree metropolitane più divaricate dal punto di vista sociale – con il restringersi delle classi medie e l’aumento di poveri e super-ricchi –  dominate dal dinamismo demografico di  minoranze e immigrati ed infine segnate dalla parabola di invecchiamento della nutrita generazione dei baby boomers.   

La Grande Recessione – e qui parliamo di dati del 2009 e di previsioni del 2010 analizzati dal demografo William Frey – sembra invece alterare la geografia ereditata dello sviluppo metropolitano. Sono cadute le migrazioni interne e internazionali, e si registra il rallentamento dello sprawl e della crescita di alcuni stati ed aree metropolitane della Sun Belt, vale a dire i territori che dal Sud all’Ovest hanno conosciuto incredibili tassi di sviluppo dagli anni cinquanta a oggi. Mentre il declino relativo di Nordest e nel Midwest – la cosidetta Rust Belt – il declino sembra essere ora meno rapido che in passato.

Fra il 2008 ed il 2009, gli stati-magnete del Nevada e della Florida hanno visto il loro bilancio migratorio andare, per la prima volta, in rosso. Anche le loro aree metropolitane hanno cessato di espandersi: bastino gli esempi di Las Vegas e di Orlando, che sono passate da aumenti annuali fino a 50.000 residenti alle attuali, seppur contenute, perdite demografiche. Ma guardando all’intensità della crisi immobiliare e di quella occupazionale, si scopre che non è solo la Sun Belt a soffrire. I dati sulla disoccupazione dell’Economic Policy Institute confermano l’interpretazione di chi legge due eventi principali nella recessione: da un lato quella di una crisi nella crisi per il cuore manifatturiero del paese, dall’altro quella del collasso delle economie immobiliari di una parte consistente della Sun Belt. Fra gli stati in cui, dal dicembre del 2007, la disoccupazione è aumentata di più ci sono Arizona, Florida e Nevada, ma anche Michigan e Ohio. Ed è a Nevada (14.2%) e Michigan (12.8%) – le incarnazioni perfette della Sun Belt e della Rust Belt – che spetta il record della disoccupazione. Ma, e questo sorprende di più, anche i dati del collasso immobiliare accomunano, almeno in parte, territori pensati come alternativi nella geografia del paese. Se, ad ottobre, ben diciannove delle prime venti aree metropolitane per incidenza del numero di immobili ipotecati sul totale appartengono a California, Arizona, Nevada e Florida – con Las Vegas e Phoenix che hanno un numero di immobili ipotecati fino cinque volte superiore alla media nazionale – quelle della Rust Belt arrivano per seconde. Michigan e Ohio hanno tassi elevatissimi, superiori anche a molti stati della Sun Belt, mentre anche le aree metropolitane di Detroit, Cleveland e Chicago si trovano nella parte più alta della classifica.

L’immagine che emerge da questi dati è quella di un’economia che con la recessione ha preso a divorare i suoi (opposti) margini: i territori “veloci” del boom del Sud e dell’Ovest da una parte, e quelli “lentissimi” della crisi di lungo periodo del Midwest e di parte del Nordest. È in questi due estremi territoriali che si è accumulato il maggiore ammontare di macerie, sia fisiche sia sociali. Mentre a Las Vegas e Phoenix i paesaggi dell’abbandono sono rappresentati da interi quartieri suburbani nuovi di zecca, gonfiatisi insieme alla bolla dei mutui sub-prime, a Cleveland e Detroit le macerie si aggiungono a quelle precedenti: oltre a quelle dei vecchi quartieri operai svuotati da un cinquantennio di deindustrializzazione e suburbanizzazione che ne ha letteralmente dimezzato la popolazione, ora ci sono quelle create dall’illusoria crescita del mercato immobiliare degli anni 2000. E i dati della recessione paiono confermare che, nel tempo, la Rust Belt si è in realtà ristretta: ad esserne uscite sono quelle aree metropolitane che sono riuscite a ritagliarsi un posto convincente nella nuova divisione internazionale del lavoro – New York e Boston, per esempio – e che reggono meglio lo choc della crisi; dall’altra quelle che invece sembrano aver perso per sempre la corsa dello sviluppo. In questa Rust Belt profonda – di cui gli stati manifatturieri del Michigan e dell’Ohio e le loro città sono i rappresentanti perfetti – si è consolidato nel tempo quello che potremmo definire, forzando un po’ la mano all’urbanista Bob Beauregard, l’hard-core dell’urban shrinkage: ovvero, il nocciolo duro del declino urbano. Città in cui la fuga dei residenti non si è mai arrestata, i terreni urbani liberati dalle demolizioni e gli immobili abbandonati si moltiplicano, le amministrazioni locali sono in uno stato di bancarotta permanente. Ed in cui la società è ormai radicalmente diversa da quella allevata nei territori del boom: con pochissimi immigrati a fare da buffer fra le due componenti (anacronisticamente) principali dei bianchi e degli afro-americani, con poche famiglie con figli, tanti anziani e una proporzione elevatissima di poveri.

Sebbene la recessione abbia punito più severamente chi ha corso troppo negli ultime decenni, la Rust Belt non ha nulla di che gioire. Per città come Cleveland e Detroit, a meno di cambiamenti epocali, quando pure questa crisi sarà finita continuerà la crisi di sempre: è probabilmente l’esito estremo ma inevitabile di un’economia boom and bust.