Perché le donne guadagnano, in media, meno degli uomini? Il tema del gender gap salariale, dello scarto tra retribuzioni legato al genere, è di colpo al centro del dibattito americano. Hillary Clinton ha cominciato proprio così la sua pre-campagna elettorale. Nel discorso di fine febbraio alla Conferenza per le donne della Silicon Valley, l’ex Segretario di Stato americano ha detto infatti due cose: che le donne sono ancora troppo poche nei settori chiave della ennesima (4.0?) rivoluzione tecnologica e industriale; e che non ha senso che continuino ad essere pagate (in questo caso Hillary parlava alle eccellenze tecnologiche americane) meno dei loro colleghi maschi. I dati, anche se vanno letti con intelligenza, confermano che è generalmente così. Sulle ragioni, Democratici e Repubblicani si dividono. Ma l’evidenza statistica segnala che il gap esiste, specie nelle fasce basse di retribuzione. Hillary Clinton ha scelto di farne una battaglia. E ciò significa che ha deciso di guardare alle presidenziali del 2016 attraverso l’elettorato delle donne, che sono poi più della metà di chi dovrà scegliere (probabilmente) fra una moglie Clinton e un fratello Bush: una competizione quasi dinastica nel cuore della democrazia americana.
Otto anni fa, la campagna di Hillary non era cominciata dalle donne. Oggi sarà così, anche perché l’ex-Segretario di Stato americano deve fare i conti con l’ascesa politica di un’altra donna, la Senatrice Elizabeth Warren, su posizioni più decisamente liberal. Un po’ per questa ragione e molto per convinzione, Hillary Clinton si immergerà fino al collo, per tutto il mese di marzo, in una serie di eventi women-only, fino al ventennale della grande conferenza sulle donne di Pechino (1995). La Conferenza dove Hillary pronunciò una frase rimasta abbastanza famosa: “facciamo in modo, una volta per tutte, che i diritti umani siano diritti delle donne e che i diritti delle donne siano diritti umani”.
Bene, anche l’Expo di Milano, con Women for Expo, si basa sui diritti come chiave per potenziare il ruolo delle donne in un campo cruciale quale la sicurezza alimentare. È sulla stessa linea Melinda Gates – la donna più rilevante della filantropia americana – che ha presentato a New York il rapporto della Fondazione Clinton. Rapporto su cosa? Domanda superflua: il Rapporto è sui vari aspetti del gender gap, incluso il dislivello fra ciò che uomini e donne riescono a guadagnare nell’arco della loro vita.
Su questo tema, un aiuto importante viene anche da Christine Lagarde, Direttore Esecutivo del Fondo Monetario Internazionale. Lagarde ha appena pubblicato un articolo in cui sottolinea, sulla base di un ultimo studio dell’IMF, che far lavorare di più le donne (retribuendole meglio) conviene: non alle donne soltanto ma alle economie nel loro insieme. Non è qualcosa che non sapessimo già. La novità sta nell’importanza dell’impatto stimato (anche se stime del genere sulla crescita “inespressa” del PIL sono sempre da prendere con le molle, mi pare) e sta nel fatto che Lagarde confermi così, con veloce autorevolezza, l’agenda attuale di Hillary.
Più difficile dire, onestamente, se possa essere considerato di aiuto il discorso a Hollywood di Patricia Arquette, vincitrice dell’Oscar quale migliore attrice non protagonista. Ricevendo il suo premio, Patricia ha lanciato un appello per la parità di retribuzione delle donne, partendo dalle artiste. Cosa che ha suscitato un bel po’ di polemiche e che a me ha ricordato l’epica battaglia di Billie Jean King, grande tennista del secolo scorso, per ottenere gli stessi premi a Wimbledon fra uomini e donne. Battaglia vinta, in quel caso.
Vedremo sul resto. Che le donne, in media, guadagnino meno degli uomini lo indicano tutte le statistiche: gran parte dell’Europa, Italia in testa (o in coda), conferma il problema. A parità di professione ed ore lavorate, le donne americane ed europee vengono sulla carta pagate come gli uomini: il principio della parità retributiva è sancito per legge. Tuttavia, resta applicato solo in parte. Nell’insieme dell’economia europea (statistiche della Commissione), la differenza media fra la retribuzione oraria di uomini e donne è ancora attorno al 16%. In Italia il divario è minore (6,7%) ma è peggiorato negli ultimi anni. Si sommano una serie di ragioni: dai figli, a una minore attitudine delle donne a negoziare la propria posizione, alla difficoltà di salire i vari gradini della carriera professionale. Lo scarto fra numero di donne e uomini ai vertici delle grandi imprese conferma tali difficoltà, anche se il dato più rilevante per il gap salariale è proprio il divario ai livelli inferiori. Conclusione: in modo poco trasparente, il sistema retributivo continua nei fatti a penalizzare le donne. E penalizzando le donne, riduce anche il dinamismo delle nostre economie.
Dall’America viene di nuovo la spinta a considerare la partecipazione paritaria delle donne, in politica e al mercato del lavoro, come una misura per la crescita: una misura fra le migliori. Ciò che appare acquisito nelle società occidentali, in realtà non lo è ancora; non lo è da noi – al di là del numero di ministri o della composizione dei Boards delle imprese; e non lo è negli Stati Uniti.
Hillary Clinton fa leva sulle donne puntando alla presidenza degli Stati Uniti. Non è una partita così semplice da impostare, in un Paese in cui le nuove generazioni, quella dei millennial, sembrano distanti, quasi allergici, a messaggi che possano essere definiti “femministi”.
Hillary Clinton deve sfuggire (come tutte le donne della sua generazione) a questa trappola, il vecchio femminismo. Sta cercando un linguaggio nuovo – fatto di diritti, responsabilità e interessi – per parlare alle donne non di donne soltanto ma anche del futuro, attraverso di loro, della società americana. Il suo tentativo è chiaro ed esplicito. Così esplicito che alla Silicon Valley Hillary Clinton ha ricordato – un po’ scherzando e un po’ ammonendo le sue potenziali elettrici – le parole di Madeleine Albright, prima di lei Segretario di Stato: “C’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano altre donne”.