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Transizioni arabe e ruolo dei media, intervista con Mona Eltahawy

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Il 15 e 16 aprile si è tenuto a Roma un Seminario Internazionale nell’ambito della Aspen Mediterranean Initiative sul tema “Media, business and societies: a platform for change”, a cui hanno partecipato Mona Eltahawy e Azzurra Meringolo.

“Agli attivisti e a quanti sono stati a lungo costretti a restare ai margini del dibattito politico, i nuovi media e i social network hanno dato la possibilità di esprimere le loro posizioni politiche, partecipare a un dibattito aperto e prendere parte alla vita reale del proprio paese”, spiega Mona Eltahawy, editorialista per diverse testate americane e internazionali, tra cui The Washington Post, International Herald Tribune, spesso ospite di CNN come commentatrice di questioni mediorientali. Blogger e attivista con passaporto egiziano e statunitense, lo scorso novembre Eltahawy è stata aggredita e arrestata dalla polizia egiziana mentre partecipava a una manifestazione contro la giunta militare nel centro del Cairo. Il suo tweet “beaten,  arrested, interior ministry” (picchiata, arrestata, ministro degli Interni) ha fatto in poche ore il giro del mondo, dando il via a una mobilitazione globale per il suo rilascio immediato. “Non smetterò di ripeterlo. Quel tweet mi ha salvato al vita. ”

Dopo la caduta di Hosni Mubarak la libertà di stampa in Egitto non è ancora garantita. Numerosi giornalisti di quotidiani liberali continuano a denunciare di essere vittime di un sistema di censura strisciante. La situazione per i media non è quindi molto cambiata?

È certamente così. Non vi è differenza tra la giunta militare e Mubarak. Hanno rimpiazzato il vecchio raìs con venti (questo il numero dei membri della Consiglio Supremo delle Forze Armate, ndr) Mubarak in miniatura. Mettendo in discussione la libertà di informazione e di espressione, l’esercito ha creato un “dipartimento morale” con il compito di controllare tutte le pubblicazioni e i servizi televisivi. L’obiettivo di questo nuovo organo è chiaro: essere informato su tutto quello che i mezzi di comunicazione producono  per evitare che informazioni scomode siano rese pubbliche. I militari e gli islamisti sono i due  grandi nemici della libertà di espressione.

Come si sono comportati i tradizionali mezzi di comunicazione in questo nuovo panorama informativo?

Tutti i vecchi format hanno iniziato a ricorrere ai nuovi media per pubblicizzare il loro lavoro. Quasi tutti i giornali hanno ormai una pagina Facebook e un profilo Twitter. Quando i tradizionali mezzi di comunicazione hanno cercato di dare voce ai dibattiti alternativi presenti nei nuovi media, il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha fatto di tutto per bloccarli. Si è adoperato per cambiare gli uomini ai vertici di canali televisivi, di quotidiani e di riviste che cercavano di portare avanti il messaggio rivoluzionario. Spesso ci sono riusciti. Basti pensare a quanto è successo a Tahrir, un progetto editoriale con tanto di giornale cartaceo, sito web e canale televisivo nato dopo la caduta di Mubarak e guidato da Ibrahim Eissa (giornalista che ha pagato con il licenziamento la sua opposizione al regime di Mubarak, ndr). I militari hanno cambiato la proprietà del quotidiano e ai giornalisti che lavorano in quella redazione è stata imposta una linea editoriale molto diversa da quella di Eissa e per nulla rivoluzionaria. Sono stati costretti ad essere accomodanti con i militari, finendo per funzionare come uno strumento di propaganda. 

Negli ultimi anni è stata evidente una moltiplicazione di riviste online e di piattaforme virtuali. Una scelta o una conseguenza delle difficoltà finanziarie?

Una rivista cartacea deve trovare un editore, pubblicità e pubblico. Serve un certo investimento iniziale. Questo è stato davvero un grosso problema per quanti hanno voluto veicolare messaggi alternativi. Investire nei mezzi di comunicazione tradizionali è sembrato a molti impossibile. È per questo che sono nate riviste online, meno costose e relativamente più libere. I blog prima, Facebook e Twitter dopo, sono riusciti a trasmettere messaggi indipendenti e a costo zero.

Fino a che punto i nuovi media in Egitto sono stati davvero in grado di veicolare nuovi messaggi?

Nelle dittature, dove soprattutto i giovani sono stati esclusi dai discorsi ufficiali, i nuovi media hanno contribuito all’inserimento di queste forze sociali nelle dinamiche politiche. Non sono stati questi canali a creare le rivoluzioni, ma hanno certamente contribuito a raggruppare tutti i messaggi di malcontento espressi nella rete virtuale aiutando a trasferirli in quella reale.

Nei paesi attraversati dalle primavere arabe quanti si sono avvicinati ai nuovi media lo hanno fatto soprattutto per questioni socio-politiche. Questi utenti possono diventare anche consumatori virtuali, con un impatto significativo anche sull’economia?

Quanti si trovano a proprio agio sul web non hanno problemi a comprare musica online, film e altri tipi di intrattenimento. Avendo una certa familiarità con il mondo virtuale, spesso possono trovare interessanti anche altri prodotti venduti su internet: vestiti, cosmetici etc. Questo non vuol dire però che li acquistano. Alcuni di loro hanno un reddito relativamente basso. Altri poi si dichiarano apertamente anti-capitalisti e  quindi contrari al neoliberalismo e all’idea che anche il web diventi una società dei consumi.

Spesso i nuovi media restano uno strumento in mano quasi soltanto ai giovani, agli abitanti delle grandi città e agli studenti universitari. Come si può colmare il divario con gli altri settori della società?

I ragazzi restano ancora i maggiori utenti dei nuovi media, ma sempre più persone si stanno avvicinando a questi strumenti. È un mondo in evoluzione. Persone di mezza età, ma anche anziani che hanno interesse a capire cosa davvero sta accadendo nel loro paese, creano account per poter ricevere informazioni più veritiere. Per colmare il divario sociale, coloro che utilizzano con costanza questi mezzi di informazione dovrebbero iniziare a condividerli con quanti non possono avervi accesso.  Bisogna passare dal virtuale al reale. Ci sono poi quanti cercano di trasferire idee e messaggi dei social media nelle strade. Quella dei graffiti sta diventando, per esempio, una forma di arte che veicola gli stessi messaggi che circolano nella rete, servendosi di spazi accessibili a tutti. Recentemente in Egitto c’è stata un’iniziativa molto interessante perché è stata capace di portare i messaggi della rete nelle strade attraversate da tutti i cittadini: è una campagna di mobilitazione contro i militari, chiamata kazeboo (siete dei bugiardi, ndr). Gli organizzatori hanno deciso di mostrare video You Tube a e altre testimonianze della condotta violenta dei militari trovate in rete a quanti vivono in località dove l’accesso a internet è scarso. Si sono muniti di schermi giganti per portare i social media nelle campagne, nell’Alto Egitto e in altre regioni più isolate. L’obiettivo era uno: mostrare che l’informazione ufficiale circolata sui media tradizionali era solo propaganda.