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Il clima in Europa dopo l’accordo di Parigi-COP21

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Una soddisfazione piena di dubbi: è questo in estrema sintesi il sentimento che prevale tra le reazioni dei governi – più orientati alla soddisfazione – dei media e dell’opinione pubblica in Europa alla fine della ventunesima conferenza delle parti (COP21) sul cambiamento climatico. Non sono poche le perplessità infatti, oltre al sollievo per il fallimento evitato, che suscita l’accordo trovato a Parigi, arrivato a ben 37 anni dal primo incontro internazionale sul tema e due decenni dopo la prima COP.

Lo stato d’animo del vecchio continente, stretto tra crisi di vario genere, non permette di cancellare facilmente l’impronta degli insuccessi degli ultimi anni. Tanto più che il più clamoroso si verificò proprio a Copenaghen, su suolo europeo e con un forte protagonismo della UE, nel 2009: la COP15, che doveva aggiornare il protocollo di Kyoto ormai moribondo fissando nuovi limiti alle emissioni e al riscaldamento globale fu un fiasco perché già un anno dopo era chiaro che i 192 firmatari dell’intesa allora raggiunta non avevano alcuna intenzione di rispettarla.

Ciò favorisce una certa prudenza di giudizio su un accordo siglato contemporaneamente da Stati Uniti e Cina, paesi ritenuti dagli europei i maggiori responsabili di quegli insuccessi del recente passato. La grande stampa non ha dunque sposato del tutto l’appagamento fatto trasparire dal ministro degli Esteri francese e perciò presidente della COP ospitata a Parigi, al termine della maratona negoziale. Laurent Fabius ne ha definito l’esito “rispettoso delle differenze, giusto, durevole, dinamico, e giuridicamente obbligatorio; un equilibrio potente e delicato, il migliore possibile, che permetterà a ogni delegazione di tornare a casa a testa alta”.

Se il quotidiano spagnolo El País, insieme a molti altri, ha parlato di un accordo “storico”, mentre Le Monde ha sottolineato l'”universalità” del consenso ottenuto grazie all’azione diplomatica francese, in relazione al protocollo di Kyoto che si applicava solo ai paesi più industrializzati, altrove c’è più cautela. Il giornale inglese The Guardian evidenzia, accanto agli obbiettivi “ambiziosi” che si è data la COP21, l’incoerenza tra l’impegno a combattere l’aumento delle temperature e l’esclusione nel testo dell’accordo di qualsiasi elemento che possa consentire l’attribuzione di una responsabilità legale per il cambiamento climatico. Quest’ultimo sarebbe infatti uno strumento utile – in particolare nelle mani dei paesi in via di sviluppo che si trovano sulle coste più minacciate dall’innalzamento delle acque – per costringere i maggiori responsabili delle emissioni a ridurle più rapidamente di quanto vogliano fare.

Ma il rappresentante della Casa Bianca John Kerry, con l’aiuto della Cina, ha eliminato dal testo anche il minimo riferimento a una tale possibilità: l’edizione europea della testata americana Politico racconta la battaglia per sostituire l’ausiliare shall (dovrà) con should (dovrebbe) nel paragrafo sulla messa in opera di piani nazionali per la diminuzione delle emissioni. Nel gergo delle Nazioni Unite infatti should non prevede obbligo legale, mentre shall sì: l’esistenza di una simile clausola obbligatoria avrebbe trasformato agli occhi della legge americana l’accordo in un trattato internazionale, da sottoporre dunque alla ratifica del Senato. Considerando che i Democratici hanno perso da tempo la maggioranza in quella camera del Congresso, e che la posizione ufficiale dei Repubblicani non riconosce ancora il cambiamento climatico come dipendente dall’attività umana, l’accordo sarebbe stato probabilmente bocciato. Come fanno notare altri commentatori, il dibattito avrebbe inoltre portato alla luce le posizioni negazioniste diffuse nella politica americana – evidenti ad esempio nella legge promulgata nel 2012 dal North Carolina che proibisce misurazioni della crescita del livello del mare diverse da quella ufficiale – provocando grave imbarazzo alla presidenza (e di riflesso soprattutto ai candidati del Partito Democratico) nell’anno elettorale.

Dal punto di vista dei capi di Stato e di governo europei, quindi, è comprensibile il mancato riconoscimento del pieno ruolo americano nelle trattative, rivendicato invece a gran voce da Barack Obama. Le loro reazioni puntano soprattutto a capitalizzare le aspettative di buon esito diffuse prima della Conferenza. Aspettative non solo visibili nelle manifestazioni che a Berlino, Londra e nella stessa Parigi ancora scossa dagli attacchi terroristi avevano riempito le strade prima dell’inizio della COP; ma che in effetti già riposavano sulle politiche di trasformazione energetica più o meno avviate da tutti gli stati dell’Unione Europea, e sull’orientamento favorevole della cittadinanza in generale.

François Hollande ha fatto del recupero dell’iniziativa internazionale della Francia uno dei cardini di questa parte della sua presidenza; “Il 12 dicembre è una grande data per l’umanità, un messaggio di vita, una speranza di cambiare il mondo”, ha commentato soddisfatto alla presentazione dell’accordo. Il successo forse non lo aiuterà in maniera decisiva a risalire nei sondaggi in vista delle presidenziali francesi del 2017, ma un insuccesso sarebbe stato davvero deleterio per la sua immagine sul piano interno, per di più nel bel mezzo di una tornata elettorale regionale che poteva diventare (anche se poi non lo è stato) catastrofico per i Socialisti.

Non possiamo invece annoverare David Cameron tra i protagonisti del vertice. Il premier inglese ha scelto proprio le scorse settimane per annullare l’atteso programma da un miliardo di sterline per la riconversione energetica e l’assorbimento di anidride carbonica, e annunciare tagli ai sussidi alle rinnovabili. Questa decisione ha spinto il nuovo leader laburista Jeremy Corbyn a prendere parte alle dimostrazioni londinesi del 29 novembre, in cui si è trovato ad arringare la folla da un automezzo dei pompieri. Corbyn è stato tra i pochissimi capi di un grande partito a scendere in piazza nei tanti paesi del mondo in cui si è manifestato nello stesso momento, perché la protesta ha avuto un forte significato nazionale, contro la politica energetica di Cameron. La retromarcia ha alienato al primo ministro anche alcuni simpatizzanti, come il giornale liberale The Independent, pur di proprietà della famiglia di magnati russi del petrolio Lebedev, che lo ha duramente attaccato sottolineando l’insipienza della delegazione britannica di fronte al positivo protagonismo degli americani.

Piuttosto sobrio il profilo mantenuto da Angela Merkel, benché non si possa dire che Berlino sia stata assente dal cuore dei negoziati. La Germania è da sempre tra gli stati che elaborano, non tra quelli che subiscono, le politiche relativamente progressiste dell’Unione Europea in materia di ambiente ed energia; i media tedeschi non hanno mancato di sottolineare i complimenti rivolti al modello ecologico del loro paese dai delegati di Parigi. Già in passato l’azione tedesca, unita a quella consonante della Commissione (l’UE ha diritto a inviare una sua propria delegazione alle COP), aveva tentato di sciogliere lo stallo in cui erano finite le ultime conferenze. Senza riuscirci, trattandosi solitamente di mediazioni troppo avanzate rispetto alle posizioni delle parti. Anche stavolta Berlino ci ha provato: il volenteroso commissario al Clima Miguel Arias Cañete ha ideato una cosiddetta “Coalizione delle grandi ambizioni”, raggruppamento di stati euro-atlantici appoggiati da un gruppo di membri della cooperazione economica europea in Africa, nei Caraibi e nel Pacifico, con lo scopo di spingere i paesi più recalcitranti ad assumere impegni più stringenti. L’iniziativa euro-tedesca, a cui avevano aderito anche Stati Uniti, Australia e Brasile, è stata infine mandata all’aria dal vice ministro degli Esteri cinese Liu Jianmin che durante una conferenza stampa l’ha chiamata, ridendo, “una performance di attori”.

Non stupisce dunque che il commento ufficiale della Commissione alla fine della conferenza sia freddo e stringato: “il risultato è insufficiente, anche se l’accordo traccia la via per affrontare il problema”, dicono da Bruxelles. “Il lavoro da fare resta enorme”, ha chiosato Angela Merkel da parte sua; e sullo stesso tono realista si sono mantenuti i giornali in Germania che, come la Frankfurter Allgemeine Zeitung, hanno puntualizzato: “il successo dell’accordo dipenderà esclusivamente dalla futura volontà degli Stati”.