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La Francia stretta fra dissenso e difficoltà economiche

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Sono passati meno di due anni dall’elezione che ha riportato un presidente socialista alla guida della Francia, dopo un lungo e profondo dominio politico della destra. La campagna di François Hollande non era stata trionfale, ma aveva intercettato la grande domanda di cambiamento diffusa nell’opinione pubblica, stanca della crisi, preoccupata per il futuro, stufa degli scandali e generalmente sfiduciata.

Per capire il disagio e la crisi di consenso che attraversa la Francia attuale, bisogna tornare al primo turno delle presidenziali: un voto dal significato netto, ma sottovalutato o dimenticato troppo in fretta. Non solo il nuovo Front National di Marine Le Pen – protagonista di una campagna all’insegna del nazionalismo, dell’uscita dall’euro, del protezionismo e della politica sociale selettiva – otteneva un record di consensi; anche a sinistra, il Front de Gauche di Jean-Luc Mélenchon raccoglieva un buon numero di voti promettendo con toni da presa della Bastiglia una rivoluzione nello Stato e una democrazia assembleare. Al netto della demagogia elettorale, quasi un terzo dei votanti al primo turno nel maggio 2012 sceglieva dunque una opzione dai forti connotati antisistema.

Nonostante ciò, François Hollande poteva godere di un ottimo credito di partenza: era percepito come estraneo alle battaglie interne che avevano lacerato i socialisti negli anni precedenti, e poteva contare sia sulla maggioranza assoluta all’Assemblea che su un governo di fedelissimi che non avrebbe creato problemi di coabitazione. Inoltre, il richiamo all’unico altro presidente socialista che la Francia abbia avuto durante la Quinta repubblica, François Mitterrand, riaccendeva le speranze di chi si aspettava un recupero di iniziativa e credibilità anche in campo europeo e internazionale.

Ma l’azione di Hollande ha mancato il bersaglio. Il presidente e i socialisti, di fronte alla crisi economica che comportava nuova disoccupazione e nuovo debito, pensavano che la Francia avesse bisogno solo di un paio di correttivi e di un po’ di spesa pubblica in più per soddisfare sia la domanda di equità, sia la necessità di riagganciare le economie europee più competitive.

Tuttavia, non è stato così: la crisi, penetrata lentamente in Francia rispetto ad altri casi nel continente, non era un raffreddore stagionale come si pensava, ma stava in realtà evidenziando i gravi problemi strutturali del sistema produttivo transalpino. Un’economia poco competitiva, una separazione sempre più grande tra le piccole e le grandi imprese, la difficoltà di creare lavoro, un sistema sociale generoso ma allo stesso tempo troppo costoso – perché elaborato sugli standard demografici degli anni Settanta. In generale, il Paese sconta l’incapacità crescente di adattarsi a un’economia globalizzata multipolare – in assenza della possibilità di svalutare la propria moneta, come la Francia era abituata a fare, per rendersi più competitiva sui mercati internazionali.

Proprio la capacità di affrontare tali questioni ha approfondito negli ultimi anni il divario tra Francia e Germania – ormai separate da diversi indicatori economici e soprattutto dal clima sociale. Mentre a Berlino si nota una certa soddisfazione, in generale, per come il Paese ha affrontato la crisi e per come i suoi governanti agiscono a livello europeo, a Parigi la rabbia è palpabile e si manifesta nelle piazze, nei conflitti di lavoro, nei rapporti dei cittadini con le istituzioni. Ciò crea un clima di diffuso scontento, che non risparmia di certo l’Europa a trazione tedesca.

François Hollande ha perso la sua grande occasione per intervenire su questa situazione. Ormai i livelli di impopolarità sono tali che i provvedimenti necessari sarebbero accolti da un’opposizione troppo grande; nemmeno il sacrificio del premier Jean-Marc Ayrault in favore del “giovane” Manuel Valls, successivo alla sconfitta alle ultime amministrative, sembra un rimedio adeguato.

Si fa largo infatti nell’opinione pubblica l’idea che la classe politica tout court sia incapace di rinnovare se stessa e di prendere quei provvedimenti necessari a rilanciare il paese – sebbene ben pochi confessino davvero ai francesi quanto estese dovrebbero essere le riforme da adottare. Sono riforme, infatti, rimandate da vent’anni, e non è un caso che ogni voto amministrativo, nelle ultime tornate, si sia trasformato in una severissima sconfitta delle forze di governo: ogni legislatura, non solo l’ultima, è stata percepita dai cittadini come un’occasione persa. Inoltre, i partiti non sanno rinnovare se stessi e la loro proposta: l’inclusione di Ségolène Royal nel rimpasto di governo, come ministra dell’Ambiente, prova che i socialisti non si sono ancora liberati dei problemi di correnti interne che ne hanno finora paralizzato l’azione. Per la coalizione avversa, intanto, non fa certo ben sperare il fatto che allo sgretolamento del centrodestra dovuto all’abbandono di Nicolas Sarkozy dopo le presidenziali si risponda principalmente con un’idea tutt’altro che innovativa: il possibile ritorno di Nicolas Sarkozy.

Hollande vorrebbe ricompattare il rapporto con i francesi attraverso una serie di leggi da adottare insieme alle forze del centrodestra e graditi alla grande industria; ma non è detto che la soluzione consensuale permetta di fare riforme adeguate, né che queste larghe intese di fatto siano la soluzione che i cittadini apprezzerebbero di più. Le elezioni delle scorse settimane sono infatti state caratterizzate da due differenze fondamentali rispetto al passato: intanto, il divorzio tra il potere e l’opinione pubblica stavolta è arrivato rapidissimo, già dopo due anni di presidenza socialista; e poi i francesi, forse per la prima volta in tale proporzione, hanno scelto le forze antisistema anche a livello comunale – a livello cioè di quella istituzione, la mairie, che da sempre sentono più vicina, e che viene solitamente risparmiata dalle fiammate del voto di protesta.

Non si era mai assistito infatti a un successo amministrativo del Front National e del Front de Gauche contemporaneamente – anche se poi questo si traduce in un limitato numero di comuni vinti, a causa della legge elettorale a doppio turno. È facile a questo punto prevedere un bis, anche più sostanzioso, in occasione delle europee di maggio.