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Siria: tra escalation e intervento limitato

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Il recente appello di papa Francesco contro un allargamento del conflitto in Siria ha aggiunto un’ulteriore dimensione internazionale alla vicenda. Il Pontefice ha ammonito contro un intervento militare esterno che potrebbe estendere la crisi, in modo perfino incontrollato, invece di contenerla.

Si possono fare due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il particolare punto di vista adottato dal Pontefice: in linea di principio, la pace è indivisibile (da cui l’invocazione “Mai più la guerra!”), e in tal senso qualunque violenza contro civili inermi è un crimine inaccettabile. Non dovrebbero esistere mezze misure in una visione coerentemente cristiana della guerra – a maggior ragione se si tratta di guerra “civile” invece che, o prima che, tra Stati. All’atto pratico, tuttavia, la stessa Chiesa cattolica ammette da sempre che vi siano gradazioni di conflitto, quanto alla gravità, all’efferatezza dei crimini commessi, e – sebbene ciò appaia piuttosto cinico – al numero delle vittime. In sostanza, nell’appello del Papa si può anche scorgere una lucida valutazione di Realpolitik, proprio nel momento in cui si richiama l’attenzione sui pericoli di un coinvolgimento di potenze esterne e a una conflagrazione su vasta scala.

Dunque, si può dire che da un lato il Vescovo di Roma stia rimarcando – in via di principio – il rifiuto assoluto della guerra come metodo di risoluzione delle controversie, ma dall’altro stia anche riconoscendo – pragmaticamente – che si è raggiunta una soglia assai pericolosa: la prospettiva del Vaticano non è affatto avulsa dal contesto internazionale, ma intende semmai giocarvi un ruolo significativo, ritenendo evidentemente che ci sia qualche margine di influenza. In effetti, il Papa non è stato certo l’unico a sottolineare i rischi di una escalation macro-regionale del conflitto siriano: vari esponenti governativi hanno fatto altrettanto, compreso il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino nei giorni scorsi. Il quadro diplomatico è incerto e vari esiti sono possibili.

Così arriviamo però alla necessaria distinzione tra prospettive che non possono essere identiche: quella del Vaticano (per sua natura a vocazione universalistica e spirituale) e quella di un governo nazionale. Anche quando uno Stato sovrano esprime forte sostegno per il ruolo dell’ONU come custode della pace mondiale, un governo deve tenere conto dell’altra inscindibile missione delle Nazioni Unite: la tutela della sicurezza internazionale. Questa non è sempre sinonimo di pace, e qui sta tutto il dilemma della politica di fronte all’uso della forza armata, cioè l’esigenza di soppesare i costi di un intervento coercitivo rispetto a quelli di un “non-intervento”. In particolare, un leader politico che disponga di mezzi militari in grado di essere impiegati in un teatro di conflitto deve considerare l’ipotesi di essere chiamato – dai suoi interessi nazionali, da paesi alleati o perfino dalla stessa ONU – a intervenire comunque, in un secondo momento, magari con costi e rischi ancora più alti. Se per la Chiesa siamo allora di fronte a un ragionamento incentrato soltanto sulla dottrina della “guerra giusta” (per cui almeno in casi estremi si prefigura l’uso limitato della forza, ma tutto si risolve nell’applicazione del criterio di giustizia), gli Stati devono ragionare in termini più complessi: valutando cioè le probabili implicazioni sui propri interessi, sia nel caso in cui altri Paesi lancino comunque un’azione militare (giusta o ingiusta), sia nel caso in cui l’azione non ci sia ma il conflitto già in corso produca altri effetti negativi.

Secondo ordine di considerazioni: ci sono comunque degli importanti vincoli alla libertà di azione di un governo: anzitutto, nei sistemi democratici l’esecutivo ha bisogno di un certo grado di sostegno politico interno, sia dagli organi parlamentari che dall’opinione pubblica. Ce lo hanno ricordato in modo lampante i casi del premier britannico David Cameron, che ha ceduto di fronte al “no” della sua Camera dei Comuni, e del presidente americano Barack Obama, che ha deciso di sottoporsi al giudizio preventivo del Congresso nei prossimi giorni (pur lasciando la porta socchiusa per una sua possibile scelta autonoma perfino in caso di un rifiuto parlamentare).

Inoltre, ciascun governo – perfino quello del paese con un’indiscussa superiorità militare mondiale, gli Stati Uniti – beneficia molto dell’eventuale supporto di alleati affidabili, o quantomeno di una coalizione assemblata per uno specifico impegno comune. Queste limitazioni possono essere più o meno vincolanti: lo sono molto nel contesto attuale perché le “lezioni dell’Iraq” sono vivide in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, oltre che nella comunità internazionale in senso ampio, e perché Obama è un presidente che persegue coerentemente le sue priorità interne e adotta un metodo decisionale rigoroso e cadenzato. In ogni caso, questi sviluppi confermano soprattutto che le valutazioni fatte da papa Francesco sono ampiamente condivise dalle diplomazie di molti grandi paesi, per ragioni politico-strategiche prima ancora che etiche.

In conclusione, ci sono ottime ragioni per mantenere la massima prudenza in questa delicata fase deliberativa – come stanno appunto facendo, con sorpresa di molti, sia Londra che Washington. E ci sono anche buoni motivi per lasciare sempre spazio all’eventuale collaborazione di tutti i paesi che possono esercitare una qualche influenza sul conflitto siriano già in corso (che ha fatto circa 100.000 vittime prima dell’uso quasi certo di armi chimiche). Si tratta in particolare dell’Iran e della Russia – per quanto arduo sia coinvolgere questi due paesi in uno sforzo costruttivo di pacificazione. E’ chiaro infatti che l’Iran è impegnato in una sorta di guerra per procura in Siria contro l’Arabia Saudita, e che la Russia sfrutta il conflitto siriano per acquisire nuovamente un certo peso nella regione (beneficiando comunque dei prezzi piuttosto alti del petrolio che la crisi alimenta). È importante anche il ruolo della Turchia, che lungo il confine siriano vede soprattutto un versante della propria “questione curda”.

È allora opportuno guardare alla drammatica questione siriana in un’ottica complessiva, perché in realtà sono molti ad avere un qualche interesse, almeno a certe condizioni, in una de-escalation. L’appello di papa Francesco deve comunque confrontarsi con le dure realtà della geopolitica, ma indica correttamente un percorso multilaterale che anche le diplomazie vedono come indispensabile. Ciò resterà vero anche dopo gli eventuali “strike limitati” prefigurati da Washington e Parigi, proprio perché limitato sarà il loro effetto: prendiamo dunque sul serio gli ammonimenti su un ampliamento del conflitto, ma ricordiamo che si sono già attivati vari meccanismi di controllo e riduzione dei rischi più estremi. Per una volta, possiamo davvero guardare con un po’ di orgoglio alle cautele imposte dalle procedure interne delle democrazie occidentali, e dalle istituzioni internazionali create su impulso di quelle stesse democrazie.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata il 3 settembre sul quotidiano Il Mattino.