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Egitto: il golpe morbido

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Il canale televisivo di stato che dedica mezzo schermo a una Piazza Tahrir in festa e l’altra metà allo spiazzo di Rabaa al-Dawahya in lacrime è l’immagine che riassume lo stato d’animo dell’Egitto di oggi. Nella prima sono riuniti quanti gioiscono per aver annullato la legittimità dei seggi. Nella seconda quanti – molti meno – in un anno di governo non sono riusciti a trasformare la democrazia elettorale in un sistema democratico più ampio, comprensivo e rispettoso dei diritti di una minoranza ogni giorno più grande.

Approfittando della enorme mobilitazione che il 30 giugno ha visto in strada milioni di egiziani, i militari hanno imposto al successore di Hosni Mubarak un ultimatum di quarantott’ore per trovare un accordo con l’opposizione. Da inizio maggio sono state raccolte le firme per una petizione popolare per ritirare la fiducia al presidente islamista Mohamed Morsi – secondo i leader della campagna ben 22 milioni di firme. Quando il presidente si è rifiutato di negoziare in maniera sincera e costruttiva, l’esercito ha convocato gli esponenti di spicco dell’opposizione e i leader delle principali istituzioni religiose – la chiesa copta e Al-Ahzar, massima autorità dell’Islam sunnita – per imporre una road map e riprendere il volante di un Paese sospeso e sempre più polarizzato.

La nuova scaletta annunciata il 3 luglio dal generale Abdel Fattah al-Sisi, capo delle forze armate e ministro della Difesa, prevede presidenziali anticipate, una revisione costituzionale e nuove elezioni parlamentari dopo la redazione di una legge elettorale. Per fare tutto ciò, un governo tecnico di unità nazionale, supervisionato dal presidente della Corte costituzionale egiziana Adly Mansour, sarà coadiuvato da una commissione di riconciliazione nazionale che cercherà di ridurre la polarizzazione esacerbata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.

Per i sostenitori di Morsi, eletto esattamente un anno fa, si tratta senza dubbio di un colpo di stato. Per i suoi oppositori invece, è invece un intervento militare “morbido”. Certo, la sequenza di immagini che immortala il discorso di Sisi che licenzia Morsi, l’ennesimo ingresso in strada dei carri armati, e l’oscuramento dei canali televisivi più vicini agli islamisti, parla chiaro: le forze armate sono tornate nuovamente in campo.

Nel farlo hanno optato per quello che Amr Shobaky, direttore del centro di ricerca cairota Arab Forum for Alternatives, definisce un “golpe morbido”. Se nel 2011, dopo aver deposto il vecchio faraone, i militari hanno messo un loro uomo a capo del Paese, adesso hanno preferito una posizione più defilata, coinvolgendo nella nuova transizione quegli attori esclusi dalla “dittatura della maggioranza” istaurata dagli islamisti: l’opposizione civile, la Chiesa copta – che, diversamente dal 2011 ha appoggiato le manifestazioni di strada – e, almeno a parole, i giovani.

I militari, pur volendo difendere i loro interessi e quelli di importanti fette del vecchio regime, preferiscono ora non essere i protagonisti di questa nuova transizione che stanno manovrando. Ciononostante, si confermano l’unica istituzione egiziana in grado di guidare un paese che necessita ancora di molta pratica democratica.

La sconfitta più dura l’incassa la Fratellanza musulmana, un movimento che dopo 80 anni di segretezza forzata non è riuscito ad uscire dalle dinamiche della clandestinità, trasformandosi in forza di governo responsabile e attenta agli interessi dell’intero Paese, non solo della propria enclave. Sottovalutando le continue manifestazioni giovanili che hanno portato in strada nuovi movimenti civili e non aprendo a quella opposizione che chiedeva di essere parte del processo politico, gli islamisti hanno commesso gli stessi errori del vecchio regime.

La lezione però non è solo per loro. A dover molto riflettere è anche l’opposizione: risentendo dei lasciti di una dittatura che per decenni ha impedito la creazione di un discorso politico alternativo, ha fallito nell’organizzarsi e nel presentarsi come valida opzione rispetto a chi invece ha fatto presa sulla religione per guadagnare il consenso popolare. Rimettendosi in pista grazie a una mossa che ribalta le regole del gioco democratico, non può certo dire di aver ottenuto un vero successo.

Sul piano internazionale, va ricordato che l’ala conservatrice dell’Islam politico che ha da sempre considerato il Cairo la sua capitale e la Fratellanza il suo punto di forza. È per questo che a seguire da vicino l’evoluzione egiziana sono in primis i paesi della regione consci dell’impatto che questi eventi avranno sulle loro dinamiche interne. Il primo a congratularsi con i militari egiziani è stato il sovrano saudita Abdullah che – come mostra l’ospitalità garantita all’ex presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali – non ha mai sostenuto le primavere arabe, preferendo probabilmente un ritorno all’ancién regime. Lo stesso vale per il presidente siriano Bashar al-Assad, che ha applaudito il rovesciamento di Morsi etichettandolo come la fine dell’Islam politico.

Più caute le cancellerie occidentali. Anche se il presidente Barack Obama ha espresso profonda preoccupazione per l’evoluzione egiziana, nelle quarantott’ore dell’ultimatum Europa e Stati Uniti non hanno chiesto di bloccare il colpo di stato in corso. La Casa Bianca, che aveva scommesso nell’esperimento della Fratellanza musulmana, ha in effetti subito una parziale sconfitta, bilanciata però dal fatto che continua a fornire un appoggio decisivo all’esercito egiziano. La prossima sfida di Washington sarà quella di mantenere, o probabilmente rinnovare, la sua credibilità: il continuo slalom della Casa Bianca che ha portato all’appoggio, almeno temporaneo e parziale, agli islamisti, ha fatto diventare Tahrir una piazza antiamericana.