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Friends of Syria: lo stallo internazionale sulla partita siriana

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Il 28 febbraio si è tenuta a Roma la quinta riunione del Gruppo di alto livello sulla Siria, meglio noto come Friends of Syria, il vertice internazionale a cui partecipano undici tra paesi occidentali e mediorientali che si propone di trovare una soluzione alla crisi del paese. Nonostante i buoni propositi e alcune novità nella distribuzione degli aiuti internazionali ai ribelli, il summit ha mostrato ancora una volta la cruda realtà: la Siria è prigioniera di troppi interessi incrociati.

Certamente l’incontro è stato l’occasione per salutare il neo segretario di Stato USA John Kerry, impegnato in quello che molti hanno definito il “tour dell’ascolto” visto l’alto numero di incontri ufficiali. Non è certo sfuggito il valore simbolico del viaggio di Kerry tra Europa e Medio Oriente, che segna un ritorno ai classici rapporti diplomatici statunitensi con i vecchi partner; si è trattata comunque di una scelta diversa rispetto alla prima visita di stato dell’allora Segretario Hillary Clinton nella regione dell’Asia-Pacifico.

Il vertice di Roma ha permesso a tutti i presenti di potersi confrontare con Moaz al-Khatib, leader del Coalizione Nazionale Siriana (CNS) e unica opposizione riconosciuta a livello internazionale.

Argomento centrale dell’incontro è stato quello degli aiuti da concedere ai ribelli. Sebbene permangano ancora perplessità, per la prima volta dall’inizio del conflitto siriano la comunità internazionale ha deciso di fornire aiuti diretti ai ribelli siriani e al loro braccio armato, l’Esercito Libero Siriano (ELS), escludendo però ufficialmente la fornitura di armamenti. Lo statement finale del vertice si limita a confermare l’impegno generico per un coordinamento nella gestione della sicurezza delle popolazioni nonché nel sostegno a qualsiasi richiesta di un dialogo nazionale senza la mediazione o la partecipazione di Bashar al Assad.

A conferma del “nuovo” impegno internazionale, gli Stati Uniti hanno annunciato che stanzieranno circa 60 milioni di dollari a favore delle opposizioni – aiuti che vanno a sommarsi ai 365 milioni di dollari in aiuti umanitari e oltre 70 milioni in sostegno finanziario ai ribelli già versati da Washington negli oltre due anni di conflitto.

La posizione comune reiterata a fine febbraio è che la soluzione diplomatica, con l’avvio di un negoziato tra regime e opposizione, sembra essere l’unica opzione plausibile sul tavolo. Infatti, la preoccupazione maggiore nelle cancellerie internazionali è che l’escalation di violenze, anche terroristiche, in Siria possa generare ulteriore instabilità (nel paese e oltre i suoi confini) e al contempo accrescere l’incertezza su chi realmente stia combattendo il regime di Assad. Tali preoccupazioni sono ovviamente acuite dall’eterogeneità dello stesso CNS e dalla presenza attiva sul terreno di gruppi islamisti vicini ad al Qaeda (come Jubhat al Nusra). La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che alcuni movimenti radicali sono finanziati e armati dalle monarchie arabe del Golfo, in particolare da Arabia Saudita e Qatar, in funzione soprattutto anti-iraniana ma con effetti imprevedibili.

Pertanto, al di là delle dichiarazioni di formale supporto al CNS e al suo braccio armato, l’incontro dei Friends of Syria a Roma ha confermato i timori della comunità internazionale rispetto al  “pantano” siriano. Stati Uniti ed Europa, in particolare, temono che un loro coinvolgimento diretto in azioni militari di sostegno ai ribelli finisca per complicare ulteriormente il quadro interno e favorire in Siria uno scenario di tipo “iracheno”.

Tutte queste preoccupazioni e incertezze si combinano poi con la posizione assunta dalla Russia: nonostante le dichiarazioni ufficiali a favore di una soluzione diplomatica nella crisi siriana, Mosca continua ad essere il maggiore sostenitore del regime siriano insieme all’Iran. Nei giorni scorsi sia il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, sia il direttore generale di Rosoboronexport (la principale concessionaria statale impegnata nell’import/export di armi), Anatoly Isaikin, hanno confermato l’intenzione di Mosca di continuare a fornire armamenti, all’esercito regolare siriano – sebbene per scopi che vengono definiti puramente difensivi.

In questo contesto generale, la Turchia non è più da tempo solo uno spettatore interessato dell’affaire siriano ma ne è divenuta parte attiva; ora ciò vale anche per Israele, con le complicazioni che ne derivano. Tel Aviv, come dimostrato con l’attacco avvenuto la notte del 30 gennaio al centro militare di Jamraya, alla periferia nord di Damasco, ha giustificato il proprio coinvolgimento con il timore che una possibile proliferazione di armi chimiche possa finire in mano ai miliziani di Hamas, Hezbollah o di gruppi islamisti radicali. Ciò andrebbe a ingrossare a rafforzare i nemici di Israele, rendendo vulnerabile l’area strategica del Golan. Da parte sua la Turchia, che sostiene politicamente i ribelli e li ospita in parte sul proprio suolo, sta cogliendo anche l’occasione per intervenire nella questione curda: Ankara ha accusato Damasco di supportare i militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e i Curdi siriani di cercare un’alleanza con il governo autonomo del Kurdistan iracheno di Barzani e di fomentare i Curdi turchi nell’intento di destabilizzare il territorio anatolico.

Pur nelle diversità di interessi in gioco, tutti sembrano d’accordo sull’assunto minimo che qualsiasi soluzione alla crisi siriana debba preservare l’unità del paese, scartando in partenza qualsiasi smembramento della Siria su base etnica o settaria. Il problema è che nessuno sa con precisione come ottenere tale obiettivo; una prima svolta potrebbe naturalmente avvenire con una spaccatura del regime di Assad, ma per ora la Siria resta ostaggio di troppi interessi contrapposti.