international analysis and commentary

Il problema balcanico dell’Europa

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La politica europea di integrazione dei paesi dei Balcani Occidentali (cioè tutte le entità politiche emerse negli anni Novanta dalla fine della ex Jugoslavia) ha portato, nel recente passato, al miglioramento delle relazioni tra gli Stati dell’area e al loro avvicinamento in campo politico, economico e legislativo agli standard richiesti da Bruxelles. Gli ultimi mesi registrano invece una serie preoccupante di battute d’arresto.

Tre fattori principali sono all’origine dello stallo: il persistere della crisi economica sullo scenario continentale; alcuni storici nodi ben difficilmente districabili perché legati alla stessa geografia politica e etnica dei territori in questione; e infine il cambiamento politico che nel maggio 2012 ha riportato al potere forze non del tutto convintamente europeiste nello stato più importante: la Serbia.

La strategia europea di allargamento si basa sull’ancoraggio graduale dei paesi balcanici all’orbita politico-economica di Bruxelles. Tra di essi, la Slovenia è membro dell’UE dal 2005; mentre tutti gli altri sono impegnati, in grado diverso, in un percorso di avvicinamento i cui esiti appaiono però sempre meno sicuri – a parte la Croazia, che dovrebbe diventare il ventottesimo stato dell’Unione a partire da luglio. Tuttavia, nemmeno questo avvenimento sembra più essere certo. L’adesione croata è stata finora propugnata con vigore dal suo importantissimo padrino tra i soggetti politici comunitari, la CDU tedesca. La Germania ospita la più grande comunità croata all’estero, è il primo partner commerciale del paese (seguita dall’Italia), ed è il tradizionale alleato di Zagabria in opposizione all’asse serbo-russo – “Danke Deutschland” si cantava in Croazia ai tempi della dichiarazione di indipendenza da Belgrado (1991), mentre venivano eretti monumenti all’allora ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher.

Il Bundestag però deve ancora ratificare il trattato di adesione della Croazia all’UE. In tempi di rigore, austerità e campagna elettorale (le elezioni politiche tedesche si terranno in settembre), parlamentari di ogni colore politico hanno scoperto una consistente vena di scetticismo nei progressi finora compiuti dal paese slavo. E minacciano di votare negativamente se questo non si impegnerà subito ad avviare tutte le riforme promesse. Il governo di Angela Merkel ha ufficialmente preso le distanze da tale atteggiamento, ma resta il fatto che a spaventare Berlino sono le condizioni economiche della Croazia, e in particolare il suo tasso di disoccupazione del 21%: come sarebbe allora gestita, appena due mesi prima delle elezioni in Germania, l’ondata migratoria che potrebbe materializzarsi, soprattutto grazie ai possibili ricongiungimenti familiari e comunque all’ingresso di Zagabria nello spazio di Schengen?

Per quanto un “no” tedesco sembri improbabile, nel frattempo tardano a ratificare anche altri Stati che condividono la linea europea di Berlino, come Olanda e Danimarca, più la vicina Slovenia; inoltre, anche soltanto il fatto che questi dubbi vengano manifestati rischia di aggravare la crescente impopolarità di cui l’Unione Europea già soffre nei paesi vicini. Non era infatti bastato all’ex presidente serbo Boris Tadić ottenere per il suo paese lo status di candidato ufficiale all’UE due mesi prima delle elezioni presidenziali del maggio 2012 per sconfiggere il candidato nazionalista Tomislav Nikolić. La Serbia, fino a pochi anni prima quasi completamente isolata sulla scena internazionale, aveva centrato l’obiettivo della candidatura grazie soprattutto a un ammorbidimento della propria posizione sull’indipendenza del Kosovo – territorio che Belgrado continua a reclamare come proprio sia per i legami culturali, sia per la presenza di una minoranza serba nelle province del nord. In quel caso, la crisi economica (la disoccupazione in Serbia è oggi al 25%), la sfiducia e la bassa partecipazione si sono rivelate le vere chiavi del risultato elettorale.

I partner europei tendono a non fidarsi della capacità di Nikolić e del suo ministro della Difesa e della Sicurezza Aleksandar Vučić di mantenere le relazioni di buon vicinato, considerate condizione necessaria e sufficiente per l’apertura dei veri e propri negoziati di adesione. I due hanno guidato la scissione dal vecchio partito radicale e ultranazionalista in cui militavano insieme ad alcuni nefasti protagonisti delle guerre degli anni Novanta, per fondare una forza più moderata. Tuttavia, fino a cinque anni fa, li si sentiva parlare in parlamento a favore della ricostituzione della Grande Serbia e propugnare la creazione di una federazione con i popoli di origine russa, invece di inseguire l’abbaglio europeo.

Il neo-presidente Nikolić ha compiuto il suo primo viaggio da capo di stato proprio in Russia, paese che non solo ha garantito alla Serbia un piano di investimenti da 800 milioni, ma che grazie al proprio potere di veto costituisce l’ostacolo principale al riconoscimento in sede ONU della piena indipendenza del Kosovo, nonostante il favore di USA, Regno Unito e Francia (e, complessivamente, ben 22 paesi membri dell’UE). Inoltre, le dichiarazioni post-elettorali di Nikolić – ha negato che a Srebrenica fosse avvenuto un genocidio e ha definito invece la città croata di Vukovar, sanguinosamente contesa durante la guerra, “un pezzo di Serbia” – hanno provocato il boicottaggio dei rappresentanti di Croazia, Bosnia-Erzegovina, Slovenia e Macedonia alla cerimonia di insediamento. Il diplomatico straniero di più alto grado presente all’evento è stato il Commissario UE all’Allargamento Štefan Füle.

Bruxelles, infatti, non può permettersi di allentare i contatti con la Serbia: dalle scelte strategiche di questo paese dipende l’equilibrio di tutta l’area. Non è un caso che l’ultimo report pubblicato dalla Commissione (ottobre 2012) sui paesi dell’area sia complessivamente più “tenero” con Belgrado che con i vicini bosniaci e macedoni. Anche la Serbia sa bene di non poter fare a meno dell’UE. I rubli di Putin possono portare una boccata di ossigeno, ma non ripianare un bilancio pubblico per il cui piano di rientro si attende il parere del Fondo Monetario Internazionale. L’economia del paese si sta ricalibrando verso il mercato europeo, anche se non in maniera definitiva: la quota dell’import dalla Russia è scesa in cinque anni dal 19 al 13%, ma è ancora dominante in ambito energetico.

Anche nel caso serbo, Berlino dirige l’orchestra: l’apertura ufficiale dei negoziati sarà possibile entro giugno 2013 solo se una delegazione parlamentare tedesca, che sarà poi seguita dalla missione del ministro degli Esteri Guido Westerwelle, si dichiarerà soddisfatta di ciò che vedrà. Tra le condizioni richieste, c’è l’abbandono di ogni pretesa sul Kosovo e lo smantellamento delle strutture parastatali che Belgrado ha creato nelle province abitate da serbi. Impossibile soddisfarle: la Germania, sponsor del candidato sconfitto Tadić, non ha fretta di fare regali politici a Nikolić.

Allontanandosi la possibilità di un rapido ingresso nell’UE – che metterebbe i paesi dei Balcani Occidentali su un piano di parità reciproca – aumenta invece il peso delle questioni etniche ancora irrisolte e la loro possibile influenza sulla tenuta della democrazia. I confini risultanti dalle guerre degli anni Novanta non possono infatti fotografare la complessità demografica di tutta l’area, né arrestare le rivendicazioni territoriali reciproche. Di fronte al vicolo cieco della questione kosovara, molti iniziano a pensare, anche in Occidente, che l’unica soluzione all’irredentismo di entrambe le parti sia lo scambio di terre o di popolazioni – una soluzione, quella della riscrittura dei confini, che l’ex ambasciatore americano a Zagabria e Belgrado Warren Montgomery ha recentemente proposto anche per la multietnica Bosnia-Erzegovina.

Sono dunque molti i segnali che indicano una certa stanchezza dei popoli e degli stati della regione nei confronti di un approccio europeo che, dopo alcuni anni di buon funzionamento, sta oggi mostrando le corde. Le rispettive aspettative di un definitivo oblio dei conflitti in cambio dell’abbraccio all’interno della stabile, ricca e generosa “casa comune” restano per il momento deluse.