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Il dibattito fiscale: una nuova età dell’oro?

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Nei negoziati sul fiscal cliff fra i Repubblicani e il presidente Obama si discute di scadenze immediate di bilancio, ed è in corso un braccio di ferro sugli indirizzi di politica fiscale per l’anno prossimo (a chi aumentare o diminuire le tasse, quali spese e servizi tagliare, in una fase di scarse risorse disponibili). Dietro questi negoziati c’è tuttavia una questione strutturale, urgente ma certo non trattabile in tempi brevi: le grandi diseguaglianze economiche che sono emerse non con la recessione, ma molto prima, durante l’ultimo trentennio. E che pongono un serio problema alla democrazia americana. È pensando a questo che gli analisti liberal hanno recuperato dalla storia nazionale la nozione di Gilded Age.

La prima Gilded Age risale a fine Ottocento. Il nome viene dal titolo di un romanzo satirico del 1873 in cui Mark Twain e Charles Dudley Warner raccontano le pratiche corrotte di uomini politici e affaristi negli Stati Uniti post-Guerra civile, in una età non dell’oro bensì, appunto, “dorata”, in modo superficiale, sfavillante, finto. Il termine è stato adottato dagli storici (anche nei manuali scolastici) per etichettare un’epoca non solo di corruzione, ma anche di stato minimo, mercato senza regole e capitalismo senza freni. Un’epoca in cui si affermarono il culto del darwinismo sociale con capitani d’industria e della finanza avidi come “baroni ladri” e potenti più di ogni governo. Un’epoca quindi di grandi ricchezze e grandi povertà.

Si tratta di un periodo storico che, per alcuni suoi aspetti, rappresenta per i conservatori di oggi un’utopia realizzata: un’età non dorata bensì dell’oro, una vera Golden Age in cui l’America era ancora l’America. Prima che inciampasse in quel gigantesco errore che è stato il Novecento, con l’invenzione delle politiche di regolamentazione dei mercati, delle imposte sul reddito, delle riforme sociali redistributive, del big government e dei cittadini ridotti a passivi utenti di benefit statali (il famoso 47% di americani di cui ha parlato Mitt Romney nell’ultima campagna elettorale). Nel passato ottocentesco ci sarebbero dunque i semi del futuro, in una sorta di viaggio Back to the Future – che peraltro era uno dei film preferiti nella Casa bianca del presidente Reagan.

Per i liberal invece la Gilded Age è un’epoca dannata che riappare oggi nelle manifestazioni più vistose dell’attuale vita pubblica. Parole come Robber Barons e darwinismo sociale, e la stessa Gilded Age, sono ricomparse nel loro linguaggio polemico. Il presidente Obama ha attaccato il budget federale proposto dai Repubblicani (meno tasse, meno servizi, meno regulation) come una forma di “thinly veiled social Darwinism” – che produrrebbe un ulteriore ampliamento del golfo fra i ricchi e il resto dei cittadini. Le preoccupazioni sono di varia natura. È possibile, come sostengono alcuni studiosi di sistemi economici comparati, che questo divario sia un freno alla crescita economica? E una zavorra a un decente funzionamento della democrazia?

Per gran parte del Novecento, il secolo del moderno liberalism, è stato il governo (in particolare il governo federale) a riequilibrare in qualche modo gli eccessi dell’economia nazionale. Le tabelle che mostrano l’andamento della concentrazione del reddito nazionale (non della ricchezza) nelle mani dell’1% privilegiato della popolazione raccontano chiaramente questa  storia. Tale concentrazione ha avuto due picchi, del 23.9% nel 1929 e di nuovo del 23.5% nel 2007; nel periodo intermedio la curva è scesa al minimo storico dell’8.9% nel 1976, per poi risalire rapidamente. Le ragioni di tutto questo? Le energiche politiche pubbliche degli anni compresi fra il New Deal e gli anni Sessanta, e il loro rallentamento nel successivo trentennio conservatore – la nuova Gilded Age appunto.

Il rapporto fra una più equa distribuzione del reddito e la democrazia è un tema classico di importanti filoni del pensiero americano. In questi ultimi tempi lo hanno riproposto alcuni osservatori con libri dai titoli eloquenti, come quelli di Larry Bartels, Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age (del 2008), e del premio Nobel Joseph Stiglitz, The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endangers Our Future (2012). Nella stessa chiave, il giornalista Hedrick Smith si è chiesto, Who Stole the American Dream? (pubblicato nel settembre 2012). Ne discutevano con altrettanta vivacità, nel pieno della Gilded Age di fine Ottocento, i nuovi intellettuali critici della cultura social-darwinista, che avrebbero aperto la strada alle riforme della Progressive Era e di Franklin Delano Roosevelt. 

Le parole per dirlo ci sono sempre state, anche nel linguaggio popolare. In una loro versione, risalgono addirittura alla tradizione repubblicana (non nel senso del GOP) di origine rivoluzionaria settecentesca, a Thomas Jefferson e poi ai Democratici jacksoniani: una tradizione secondo la quale una eccessiva concentrazione di denaro nelle mani di pochi è un pericolo per le libertà del paese. Se ne trova un’eco semplificata e radicale nello slogan di Occupy Wall Street, “We are the 99%”. E la domanda è sempre la stessa: quanta diseguaglianza può sopportare una repubblica democratica prima che vada in frantumi il suo tessuto sociale e politico, prima che cessi di essere una repubblica?