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L’incerto fattore Cina nella guerra in Ucraina

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Di fronte alla attuale guerra di logoramento che minaccia di protrarsi per parecchi mesi se non anni, le tenui speranze di una via di uscita negoziale si appuntano sulla Cina: Pechino – ragionano i più ottimisti – avrebbe interesse ad evitare una crisi duratura dell’ordine internazionale, accreditarsi come potenza ragionevole, consolidare i proficui rapporti economici con l’Occidente.

In effetti, solo la Cina sarebbe in grado, se lo volesse, di esercitare una energica pressione su Vladimir Putin perché metta fine alla sua guerra di aggressione. Ma in questa fase dimostra chiaramente che non ha alcuna intenzione di cavare le castagne dal fuoco all’Occidente e che tiene fede alla “alleanza senza limiti” dichiarata alla vigilia dell’attuale conflitto, accontentandosi di auspicare un negoziato di armistizio (sottinteso: quando sarà il momento) e di pronunciarsi contro il ricorso alle armi nucleari.

Il capo della diplomazia cinese Wang Yi

 

Non dobbiamo nasconderci che questo conflitto presenta aspetti vantaggiosi per la Cina: contribuisce ad erodere le pretese egemoniche (“world leadership“) degli Stati Uniti e a consumare i loro arsenali convenzionali (e quelli di altri Paesi NATO); accelera l’evoluzione dei rapporti sino-russi verso un sostanziale vassallaggio; assicura abbondanti rifornimenti di idrocarburi russi a prezzi di favore grazie alle sanzioni e contro-sanzioni. E un’eventuale sconfitta ucraina, dimostrando l’inefficacia del sostegno americano, aprirebbe anche la strada ad una capitolazione di Taiwan, oltre ad alimentare le pulsioni isolazioniste nell’elettorato USA.

 

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Un ruolo costruttivo nell’avvio di colloqui – buoni uffici, non mediazione, per la quale manca il requisito della equidistanza – potrebbe essere assunto da Pechino nell’eventualità di una disfatta dei russi, e quindi per aiutarli a chiudere la partita, non mettendoli sotto pressione. Ma siamo ben lontani da un simile scenario.

Date queste premesse, come valutare il cosiddetto “piano di pace” in 12 punti presentato ufficialmente a fine febbraio? Non solo il governo USA ma la maggior parte dei commentatori lo ha giudicato molto vago, e irrilevante. Gli stessi cinesi lo hanno derubricato a “position paper“, a sottolineare che si guardano bene dal voler premere sull’alleato.

Di significativo troviamo qualcosa soltanto nei primi due punti. Gli altri sono di contorno: protezione dei civili e dei prigionieri, esportazioni di grano, non-ricorso alla minaccia nucleare, sicurezza delle centrali atomiche, ricostruzione ecc.

Il primo punto è l’unico che chiede a Mosca di fare un passo indietro: raccomandando il rispetto della sovranità dell’Ucraina, esclude ogni velleità di imporle uno status di vassallo (ma questa esclusione il paese aggredito se l’é guadagnata con la sua strenua resistenza nella prima fase della guerra). Non scontato è indubbiamente il riferimento all’integrità territoriale che, se preso alla lettera, costituirebbe una presa di posizione in favore di Kiev. In mancanza di una richiesta di ritiro sulle linee del 23 febbraio 2022, o addirittura fino al confine internazionalmente riconosciuto (cioè pre-2014), si presta però a varie interpretazioni. I russi potrebbero addirittura considerarlo compatibile con la pretesa di avanzare fino ai capoluoghi Kherson e Zaporijia, visto che in base al loro ordinamento le quattro regioni “contestate” fanno ormai parte del territorio della Federazione Russa.

Il richiamo al rispetto degli interessi di sicurezza della Russia allude alla richiesta di una rinuncia dell’Ucraina ad entrare nella NATO (questione peraltro di valore simbolico, dato che un‘alleanza esiste già di fatto, come conseguenza dell’aggressione), ma può anche leggersi come un appoggio alla pretesa della Russia di occupare territori altrui se necessario alla propria sicurezza. O un invito agli occidentali ad astenersi dall’armare l’Ucraina.

Il secondo punto – abbandonare la „mentalità da Guerra fredda“ – offre sostegno alla tesi di Mosca secondo cui il preteso accerchiamento perseguito dalla NATO ai danni della Russia è alle radici del conflitto, e condanna implicitamente l’ingerenza occidentale nel conflitto russo-ucraino. Anche il punto 10 – revoca delle sanzioni – è evidentemente rivolto ad europei e americani.

 

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È certamente legittimo concedere a Pechino il beneficio del dubbio, cioè non escludere che il capo della diplomazia cinese in visita a Mosca (Wang Yi) abbia esperito un cauto sondaggio circa la disponibilità russa a un negoziato. Quello che è sicuro è che il Cremlino respinge nettamente tale ipotesi, come ha dichiarato il portavoce di Putin.

Altrettanto legittimo è un più marcato scetticismo: non potrebbe la presunta iniziativa di pace essere una operazione di facciata intesa a mascherare o controbilanciare un accordo su forniture cinesi di materiale bellico alla Russia? La messa in guardia americana, proprio su questa eventualità, dimostra che a Washington risultano chiari indizi di una intesa del genere.

Se la posizione della Cina rimane ambigua, quella russa non lo è affatto. E lascia ormai poco margine a coloro che insistono sulla necessità di spostare l’attenzione dagli aiuti militari richiesti dal Paese aggredito a sforzi per una soluzione negoziata.