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La modernizzazione della Cina e i suoi limiti: quel treno chiamato demografia

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Analizzare la sfida demografica per la Cina richiede anzitutto la massima chiarezza possibile sul fattore demografico e sulle sue dinamiche.

Per una data popolazione, il rapporto tra il numero dei nati vivi in un dato intervallo di tempo e l’ammontare numerico della medesima popolazione ragguagliato a mille nell’istante centrale di quell’intervallo di tempo è detto tasso di natalità. Analogamente, se quel numero di nascite è rapportato alla popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente stabilita tra i 15 e i 44 anni, quel numero prende il nome di tasso di fertilità.

Secondo il Dipartimento di economia e affari sociali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), l’Italia ha registrato nel 2021 un tasso di natalità di 6,93: ovvero, in Italia in quell’anno sono mediamente nati vivi 6,93 bambini e bambine per ogni mille abitanti, e un tasso di fecondità di 1,28, ovvero, in Italia in quell’anno sono mediamente nati vivi 1,28 bambini e bambine per ogni donna in età feconda.

Il tasso di fecondità ha un effetto più diretto sul significato pratico di natalità. I figli si producono attraverso l’accoppiamento uomo-donna, fermo restando tutti gli altri casi previsti dalla legge. Un tasso di fecondità di 1,28 equivale a dire, a parità di tutte le altre condizioni, che tra un certo numero di anni la popolazione residente sul territorio della Repubblica Italiana sarà definitivamente estinta, essendo tale tasso minore di 2,1, ovvero minore del numero di nascite necessario per rimpiazzare i due individui della coppia riproducente.

Il fenomeno delle nascite è questione spinosa per quasi tutti i 193 Stati membri dell’ONU, e in particolare per quei paesi definiti economie avanzate. Di conseguenza, nel «fare le pulci» alla Repubblica Popolare Cinese, paese per antonomasia antagonista del blocco democratico-liberale, anche su questioni riguardanti la demografia, è assolutamente lecito il vecchio detto «da che pulpito viene la predica!».

Ciononostante, data la particolarità della Cina nei rapporti politici, economici, sociali e tecnologici con il resto del mondo, come pure la velocità con cui la demografia cinese sta evolvendo, il suo caso merita una trattazione specifica; ciò indipendentemente dalle condizioni demografiche, spesso peggiori, del paese di appartenenza di chi intende analizzare la crescita o la decrescita della popolazione in Cina.

Un murale di propaganda dei tempi della “politica del figlio unico”

 

Il caso Cina e le sue peculiarità

Per popolazione nazionale cinese si intende l’insieme delle persone con cittadinanza cinese residente nelle province, regioni autonome e comuni direttamente controllati dal governo centrale, ovvero la cosiddetta Cina continentale, non contemplando così le due regioni amministrative speciali di Xianggang (Hong Kong), Aomen (Macao) e l’isola di Taiwan con il suo arcipelago.

In febbraio, l’Ufficio nazionale di statistica cinese ha annunciato che alla fine del 2022 la popolazione nazionale ha registrato un saldo negativo tra nascite e decessi di circa tre milioni rispetto all’anno precedente: è un evento mai successo prima d’ora negli ultimi cinquant’anni di storia della Repubblica Popolare Cinese, ma non inaspettato, anzi, più che atteso.

Secondo le ultime pubblicazioni dell’ONU, assunte come riferimento formale per l’intera comunità internazionale, nel 2021, la popolazione cinese residente in Cina ammontava a 1,426 miliardi di persone, un numero che ha riconfermato la Cina come il Paese più popolato del pianeta.

Infatti, prendendo a riferimento gli ultimi cinquant’anni, con il 1962 come anno di partenza e primo anno dopo la grande carestia cinese sotto il regime di Mao, il 2021 è stato già l’anno col minore numero di nascite in assoluto in relazione alla popolazione complessiva, precisamente 63,8 milioni con un incremento rispetto all’anno precedente di appena 0,4 punti percentuali. Il tasso di natività è stato di 7,63, il più basso degli ultimi cinquant’anni, mentre il tasso di mortalità è stato di 7,45.

Il tasso di mortalità, sebbene dimezzato dalla fine della grande carestia, è cresciuto costantemente negli ultimi venti anni a un tasso medio annuo dell’1%, mentre nello stesso periodo il tasso di natività si è ridotto ogni anno di 2,5 punti percentuali. Se questo andamento fosse persistito, già nel 2022, o poco oltre, la popolazione cinese avrebbe potuto raggiungere il punto critico in cui il tasso di mortalità avrebbe superato il tasso di natalità, con il conseguente inizio della diminuzione della popolazione. E così è stato, a dimostrare ancora una volta che la demografia, come la matematica, non è un’opinione.

 

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La decrescita della popolazione cinese interessa già da qualche anno anche la fascia in età lavorativa. Nel solo 2021, le persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni sono diminuite di 2,1 milioni, pari a una riduzione dello 0,21% rispetto all’anno precedente. Dal 2016 le variazioni sono tutte negative con una perdita cumulata di 11,8 milioni di lavoratori e lavoratrici, e con la popolazione anziana passata dal 10,5% al 13,1% della popolazione complessiva.

Il rapporto tra la popolazione attiva e la popolazione anziana è passato negli ultimi cinquant’anni dalle 14,7 persone attive per ogni anziano del 1962 alle 5,4 del 2021. In un’intervista rilasciata a ChinaFile, una rivista online con sede a New York, secondo Feng Wang, professore di sociologia dell’Università della California a Irvine e socio straniero dell’Accademia Nazionale dei Lincei, la popolazione con età superiore ai trent’anni potrebbe raggiungere il 30% dei residenti già nel 2050.

In realtà, a dare l’allarme è stato lo stesso governo di Pechino poco dopo il settimo censimento nazionale della popolazione rilasciato dall’Ufficio nazionale di statistica cinese nel maggio 2021. Nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione dei risultati del censimento, il Politburo del Partito comunista cinese, attraverso l’Agenzia Nuova Cina – nota anche come Xinhua, la maggiore agenzia di stampa ufficiale della Repubblica Popolare Cinese direttamente subordinata al controllo del Consiglio di Stato – ha annunciato che la Cina si sta orientando verso una «politica dei tre figli» ponendo fine alle multe precedentemente imposte alle coppie che avevano più di due figli. Inoltre, nello stesso comunicato, si è sottolineato che rispondere in modo proattivo all’invecchiamento della popolazione è direttamente correlato allo sviluppo della nazione e al benessere delle persone, e così facendo salvaguardare la sicurezza nazionale e la stabilità sociale.

Pochi mesi dopo, anche il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato l’allarme, segnalando che, oltre a un’economia squilibrata e un calo della produttività, anche la contrazione della forza lavoro è per la Cina una minaccia a una crescita sostenibile nel lungo termine.

Da allora, è stato un flusso ininterrotto di proclami e iniziative per affrontare i pericoli legati, almeno potenzialmente, alla decrescita demografica. Si sono toccati temi come l’età pensionabile, che l’agenzia Xinhua promuove di aumentare gradualmente dagli attuali sessant’anni per la maggior parte degli uomini e di cinquanta-cinquantacinque anni per le donne; alla Municipalità di Shanghai, che chiede di estendere il congedo di maternità con incluse azioni per prevenire discriminazioni sul lavoro verso lavoratrici madri o in stato di gravidanza; alla Commissione della salute nazionale, che lancia programmi pilota volti a migliorare l’assistenza sanitaria agli anziani in quindici delle trentuno province, regioni e città amministrate centralmente da Pechino; fino al Consiglio di Stato, che pone il divieto dell’attività di insegnamento privato per alcune materie di base in un apparente tentativo di migliorare la qualità dell’istruzione, alleggerire i compiti a casa degli studenti e ridurre la pressione sociale e finanziaria sulle famiglie.

 

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È tuttavia improbabile che queste misure possano risolvere la questione demografica cinese nel medio periodo e, forse, neanche nell’arco di una o due generazioni. La popolazione ha raggiunto un livello medio di istruzione e reddito, per il quale avere famiglie più numerose ha perso fascino; soprattutto, la necessità sociale di accudimento reciproco, come dimostra la dimensione media della famiglia, che secondo l’Ufficio nazionale di statistica cinese è passata dai 3,6 membri del 1999, primo dato disponibile, ai 2,6 membri del 2020. Oggi la Cina è diventata una società in cui la maggior parte delle famiglie ha una struttura «4-2-1», in cui una coppia di lavoratori mantiene quattro genitori e un figlio, dunque quasi impossibilitata a ogni tipo di allargamento.

Inoltre, se dal 2016 il cambio epocale della fine della politica del figlio unico non ha arrestato il declino demografico della popolazione cinese, né tantomeno ha apportato un qualche significativo miglioramento, a poco o punto servirà la nuova politica dei tre figli lanciata dal governo di Pechino dopo la doccia fredda del settimo censimento nazionale della popolazione.

 

Le leggi ferree della demografia e della modernizzazione

Secondo la teoria della transizione demografica, sviluppata da osservazioni empiriche di demografi statunitensi ed europei nella prima metà del ‘900, tutte le popolazioni del mondo evolvono secondo tappe fisse. Si parte da una fase detta di “regime antico”, caratterizzata da alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità peculiari dei paesi più poveri, per terminare attraverso fasi intermedie a una fase detta di “regime moderno” caratterizzata da tassi di natalità che eguagliano i tassi di mortalità, tipici di regioni e Paesi fortemente industrializzati e con un alto prodotto interno lordo pro capite (generalmente superiore ai 40mila dollari annui a parità di potere di acquisto), come Nordamerica, Europa, Australia, Giappone e Corea del Sud.

Il fulmineo sviluppo economico cinese mette in crisi il modello della transizione demografica, poiché la Cina si trova demograficamente nel regime moderno senza però avere raggiunto un livello di benessere da economia avanzata, ovvero, come si suole dire, la popolazione cinese è diventata vecchia prima di diventare ricca: è quasi come dire che la crescita cinese è stata, per la sua rapidità, non sufficientemente sostenibile.

Prendendo in considerazione le due principali variabili, la demografia e l’economia, le ragioni di questo fenomeno potrebbero essere due: la Cina ha registrato una crescita della ricchezza più lenta della decrescita della popolazione, oppure, viceversa, la Cina ha visto una decrescita della popolazione più rapida della crescita della ricchezza. Escludendo fattualmente l’ipotesi di una crescita economica non sufficientemente rapida, la demografia, e più precisamente lo stile di vita – voluto, adottato o imposto – appare più plausibile, quasi deterministica.

La prosperità economica è certamente uno dei «contraccettivi» più efficaci contro la crescita demografica di una popolazione, come già osservato in molti Paesi industrializzati o di nuova industrializzazione. Abbiamo la maggiore partecipazione delle donne all’istruzione e al lavoro non domestico, una società altamente competitiva e concorrenziale, il cambiamento degli atteggiamenti nei confronti del matrimonio, le mutevoli aspettative nei confronti della qualità della vita e dei suoi crescenti costi pongono le persone, e in particolare le donne, in una condizione di minore predisposizione verso l’onere della gravidanza e della crescita dei figli. A queste ragioni tipiche, potrebbero anche associarsi, motivi puntuali, seppure transitori, come una pandemia e le conseguenti interruzioni delle attività lavorative che possono ancora di più disincentivare coppie e famiglie ad avere un primo, un secondo e, forse, un terzo figlio.

Eppure, queste ragioni sono le medesime esperite dai Paesi che hanno già attraversato nei decenni scorsi tutte le fasi del modello della transizione demografica a partire dalla rivoluzione industriale di metà Ottocento. E allora, il caso cinese di decrescita della popolazione prima del raggiungimento di un determinato livello di benessere socioeconomico deve essere probabilmente cercato nella struttura dello Stato cinese, fondato sulla centralità assoluta di un partito che, negli ultimi anni, ha anche perso la pratica della leadership condivisa. Questa forma di governo assoluto, ramificato in ogni meandro della vita pubblica e privata, crea barriere sociali e politiche, e recentemente anche economiche, allo sviluppo potenziale dei singoli individui, oscurando il futuro e demotivando le giovani coppie a procreare.

Anche gli effetti sull’economia possono essere i medesimi registrati nei Paesi che sono già da tempo posti nel “regime moderno” della transizione demografica. Probabilmente si avrà una penuria di forza lavoro con conseguente aumento dei salari e dei prezzi – non limitato alla Cina, considerando il peso dell’industria cinese sull’intero globo – e perdita della competitività fondata solo sul costo della manodopera, che a sua volta spingerà imprese nazionali ed estere a spostare le attività logistico-produttive in altri paesi della regione indo-pacifica. Presumibilmente si avrà una riduzione dei consumi interni, almeno in termini di quantità di beni e servizi, per risparmi precauzionali allo scopo di fronteggiare future spese scolastiche, mediche e pensionistiche per sé e per i parenti più prossimi. E verosimilmente si avranno meno entrate fiscali nelle casse statali e, soprattutto, un aumento letteralmente fattoriale della spesa pubblica in assistenza sanitaria e pensionistica per gli anziani, al punto da mettere a repentaglio la tenuta della struttura statale, drenando capitali da altre attività indirizzabili allo sviluppo del capitale umano e tecnologico del Paese.

 

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Secondo l’OCSE, la spesa pubblica cinese per assistenza sociale e sanitaria, incluse le pensioni, è pari al 10% del prodotto interno lordo, inferiore significativamente alla media del 20% dei Paesi OCSE, più precisamente inferiore a tutti i suoi Paesi membri, fatta eccezione del Messico, ultimo della classifica. La Cina, dunque, per essere definito Paese avanzato, non solo in termini di regime demografico ma anche economico, deve almeno raddoppiare la propria spesa pubblica per raggiungere il livello medio della qualità della vita dei paesi più ricchi del mondo in regime di economia di mercato, o fino a triplicarla se desidera invece eguagliare paesi come Francia, Finlandia e Italia. Una tale intenzione, però, non è mai emersa in alcun discorso ufficiale di membri del Partito comunista cinese, a provare che le priorità sono altre.

Susan Greenhalgh, antropologa all’Università di Harvard a Cambridge nel Massachusetts, in un articolo per The China Quarterly, prestigiosa rivista accademica inglese dell’Università di Cambridge, riporta che dopo la fine della Rivoluzione Culturale, Zhou Enlai, l’allora Primo ministro del Consiglio di Stato, annunciò un piano quinquennale che mirava a contenere la crescita della popolazione alla luce delle preoccupazioni malthusiane che una popolazione in rapido aumento avrebbe compromesso lo sviluppo economico della Cina. Qualche anno più tardi, Song Jian, un ingegnere aerospaziale esperto di missili balistici sottomarini, durante un viaggio in Europa, apprese la teoria del controllo della popolazione promulgata da un gruppo di economisti e imprenditori che già allora riflettevano sulla sostenibilità dello sviluppo della popolazione mondiale in rapporto alle risorse naturali, il cosiddetto Circolo di Roma. Da quell’incontro, Song e il suo gruppo eseguirono calcoli attraverso i quali poterono stabilire che, per i prossimi cento anni, la popolazione ideale della Cina era compresa tra 650 e 700 milioni di persone, circa i due terzi della popolazione di allora pari a un miliardo. Per raggiungere questa popolazione, l’ingegnere Song mostrò che la traiettoria ottimale era di ridurre rapidamente la fertilità a un figlio per coppia entro il 1985 e mantenere quel livello per 20-40 anni, per poi elevarlo lentamente alla sostituzione, ovvero al tasso di rimpiazzo di 2,1 figli per donna.

Le ultime proiezioni demografiche dell’ONU prevedono uno scenario medio per il 2100 di una popolazione cinese di circa 767 milioni di persone, un valore niente affatto lontano dalle stime del comandante Song, considerando gli strumenti di calcolo allora disponibili, quasi a indicare, paradossalmente, che quei conti erano giusti, visto che ora è in vigore la politica del secondo, anzi, del “quasi terzo figlio”.

 

Le scelte difficili: una questione politica e culturale

Per la Cina, una popolazione ridotta della metà in un percorso di ridimensionamento graduale della durata di ottanta anni non necessariamente è un dramma, anche perché le dimensioni numeriche di una popolazione non sono una condizione necessaria per assicurarsi il successo. Se la dimensione della popolazione fosse stata la principale determinante della Storia, allora, un piccolo popolo di pastori nella valle di quel fiume chiamato Tevere non avrebbe potuto creare uno dei più grandi e magnificenti imperi dell’umanità.

La questione della demografia cinese è una faccenda culturale, e solo in parte economica. I governanti cinesi dovrebbero rinunciare a una lunga serie di aspirazioni già nate distorte in partenza, le quali anziché liberare le energie produttive del paese, le imbrigliano e le distolgono dalle vere priorità.

Per primo, dovrebbero ridare alla popolazione fiducia nel futuro allentando il controllo maniacale sui singoli individui, rimuovendo il dogma dell’infallibilità del Partito comunista cinese, ampliando le libertà individuali e i diritti civili, accantonando il modello asfissiante del tiger parenting, arrestando quella insana corsa individuale e collettiva del primeggiare con tutti in qualunque piccola attività quotidiana, arretrando il dominio sull’economia dando sostegno alle iniziative private piuttosto che alle imprese statali.

Per secondo, dovrebbero capire che questo non è, e non sarà, il secolo cinese, e nemmeno il secolo asiatico, ma il secolo globale, cioè il secolo della comunità internazionale, visto che aumentano gli interessi e gli obiettivi comuni, che i Paesi occidentali non sono affatto in decadenza, che altri Paesi limitrofi stanno già prendendo il posto della Cina, e che, in definitiva, conviene abbandonare l’ambizione culturale ed economica di divenire la potenza egemone entro il 2049, l’anno in cui sono previste le celebrazioni per il centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Per terzo, dovrebbero favorire lo sviluppo delle popolazioni rurali piuttosto che delle popolazioni metropolitane, eliminando le differenze politiche e civili tra i residenti nelle città e i residenti nelle campagne, in particolare per l’istruzione, avendo oggi profondi divari tra i risultati scolastici dei giovani abitanti delle città e dei giovani abitanti delle campagne, con oltre il 90% degli studenti di città aventi un’istruzione superiore, e solo circa un quarto dei loro omologhi rurali con un pari titolo, come mostrano le ricerche di Scott Rozelle, direttore del Rural Education Action Program dell’Università di Stanford. Così facendo, le autorità cinesi potrebbero creare una forza lavoro più istruita e più produttiva che compensi la perdita di crescita economica dovuta alla riduzione della popolazione, ovvero il cosiddetto dividendo demografico, come pure che aumenti il contenuto di innovazione organizzativa e tecnologica del paese.

Se i governanti cinesi imboccassero la diritta via delle riforme politiche e sociali, allora entro la fine del secolo la Cina potrebbe essere annoverata tra le economie avanzate, non solo perché il tasso di natalità della sua popolazione eguaglia quello di mortalità, ma anche perché il suo prodotto interno lordo pro capite eguaglia o supera quello delle attuali economie sviluppate.

La demografia non è il destino.