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La Cina che invecchia

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 Ci interessa la crisi demografica della Cina? Si, perché avrà effetti importanti sulle prospettive di crescita di una delle principali economie mondiali. E avrà un impatto sugli equilibri globali: la demografia può non essere un destino – ha scritto Nicholas Eberstadt su Foreign Affairs – ma è uno dei fattori chiave (la consistenza numerica e la qualità del capitale umano) che influenzeranno la competizione a lungo termine fra grandi potenze.

Sono anni, in realtà, che gli esperti cinesi sottolineano l’importanza del dilemma a cui è di fronte il paese: “la Cina – ci è stato detto nel 2010 a un seminario di Aspen a Pechino – rischia di diventare vecchia prima di diventare ricca”. Questo rischio sta diventando concreto. Per la prima volta da sei decenni (ossia dalla grande carestia provocata dal “Grande Balzo in avanti” di Mao Zedong) il numero dei decessi ha superato, nel 2022, quello delle nascite. La superpotenza demografica diventerà l’India, prima della Cina.

 

Nello spazio di un paio di generazioni, Pechino è passata dal tentativo di controllare la crescita della propria popolazione (con la politica del “figlio unico”, introdotta nel 1980) al tentativo di incentivarla, abolendo le restrizioni alle nascite e offrendo sussidi alle famiglie con più figli. Il motivo di questo dietro front è chiaro: il declino demografico, combinato all’aumento delle aspettative di vita, ha generato un processo di invecchiamento che tenderà a deprimere la crescita e che è molto difficile da gestire in un paese sostanzialmente privo di welfare state. Un processo di “ageing” si è già verificato in parte delle società occidentali (fra cui l’Italia), in Giappone e in Asia orientale, mettendo sotto stress la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

In Cina, che ha assai meno strumenti di politica sociale, l’impatto è ancora più rilevante. Si può aggiungere che, in un sistema autoritario accentrato, è molto più semplice scoraggiare le nascite, anche in modo brutale, che favorirle. Lo sviluppo economico accelerato ha cambiato gli stili di vita: il tasso di fertilità decresce mentre aumentano i livelli di reddito e di educazione. La riluttanza a sostenere gli oneri dei figli è evidente nelle grandi città della Repubblica Popolare. Tanto più quando la Cina cresce meno che in passato (3% nel 2022, il tasso più basso da circa mezzo secolo) e mentre si avvertono ancora le scosse del Long Covid. Secondo alcuni sinologi, l’idea di famiglia riproposta dal PCC – che include una crescente avversione al divorzio e il recupero di valori patriarcali – fa ormai a pugni con la realtà.

 

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La riduzione di popolazione giovane in età lavorativa significa che la strategia di sviluppo della Cina ha perso una decisiva molla interna. Fra il 1975 e il 2010 questa quota della popolazione era sostanzialmente raddoppiata, trainando la crescita accelerata dell’economia. La Cina sta al tempo stesso perdendo una parte delle leve internazionali della crescita, con la frammentazione dell’economia globale e il “decoupling” tecnologico fra Stati Uniti e Cina. Siamo insomma al crepuscolo di un modello di crescita che ha funzionato molto bene dagli anni ’80-’90 del secolo scorso: la sua revisione è obbligata. Il punto è che le scelte finora adottate da Xi Jinping non sembrano funzionare granché: hanno scoraggiato il settore privato a vantaggio di un capitalismo di Stato fortemente concentrato. Non a caso, Xi sta adesso cercando, con un altro cambiamento di rotta, di “recuperare” l’appoggio degli imprenditori privati.

La popolazione della Cina per classe d’età

 

La sfida che sta vivendo la Cina è abbastanza chiara. Sia la fallimentare gestione del Covid che l’insuccesso dei rimedi al declino demografico, indicano la tensione che esiste fra la necessità di introdurre riforme economico-sociali e la pretesa di controllo assoluto da parte del PCC. Xi Jinping è riuscito a consolidare il proprio potere personale con il XX Congresso dello scorso ottobre, ma rischia di perdere la presa nella società. Il vecchio scambio che era alla base del funzionamento della Cina come sistema “socialista di mercato” – crescente benessere economico senza libertà politica – potrebbe non reggere più. Privando così il PCC del famoso “mandato del cielo”: la legittimità a governare l’Impero celeste.

 

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E’ aperto, in Europa e negli Stati Uniti, un dibattito difficile sulla Cina. Il vecchio ottimismo sugli effetti della globalizzazione è ormai superato: nessuno crede più che lo sviluppo dell’economia cinese renderà anche più democratica o meno nazionalista la principale potenza asiatica. Seppellita l’ingenuità degli anni ’90, non è chiaro se l’Occidente debba puntare in modo esplicito a frenare le potenzialità di crescita della Cina.

L’America di Biden, come quella di Trump, si muove in questo senso, fra bando alle esportazioni verso la Cina di semi-conduttori avanzati e conseguenze dell’Inflation Reduction Act, i grandi sussidi federali alla transizione energetica “made in USA”. Per gran parte delle economie asiatiche e per la manifattura europea, anzitutto tedesca, l’economia globale non può invece permettersi una crisi di crescita della Cina. Nel primo caso, il declino demografico è benvenuto e prevale la competizione geopolitica, con una eventuale crisi su Taiwan sullo sfondo. Nel secondo, persiste una visione parzialmente mercantilista. Manca una strategia condivisa coerente, che combini fattori geopolitici ed economici. Dopo la Russia (o forse anche prima) il cosa fare con la Cina sarà il banco di prova della coesione occidentale.

In conclusione, il caso Cina è un indicatore importante del problema più generale che abbiamo di fronte, guardando al rapporto fra demografia e geopolitica. Nell’età della “decadenza demografica” (definizione di Ross Douthat, New York Times), i Paesi che riusciranno a gestire meglio l’impatto socio-economico dell’invecchiamento – spostando risorse dalle generazioni più vecchie a quelle più giovani, valorizzando il capitale umano, gestendo in modo efficace i processi migratori – saranno anche i più competitivi. L’America ha ancora “fondamentali” demografici buoni, rispetto alla Cina e soprattutto rispetto al declino evidente della Russia, che finirà per limitare anche le capacità di Mosca di condurre guerre “per scelta”. Per gran parte dell’Europa e delle democrazie asiatiche, rispondere alla “decadenza demografica” è e sarà uno dei grandi nodi politici e sociali di questo secolo, come dimostra la difficoltà di riformare i sistemi pensionistici (le proteste francesi contro le decisioni di Emmanuel Macron in materia lo ricordano).

Insieme all’India, il continente in rapida crescita demografica resterà l’Africa, dove vivranno – dicono le proiezioni – 2,5 miliardi di persone nel 2050. Il movimento inevitabile di una quota anche minima di questa popolazione sarà parte di una trasformazione globale che investirà prima di tutto l’Europa.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 22/01/2023