international analysis and commentary

I difficili rapporti USA-Pakistan e il quadro regionale

415

I rapporti tra Washington e Islamabad sembrano incanalarsi verso una crescente conflittualità e sfiducia reciproca. Non è ancora da escludere un’inversione di tendenza, ma certo un segnale forte viene dal congelamento da parte dell’amministrazione Obama di 800 milioni di dollari di aiuti militari. Nel momento in cui prende avvio il ridimensionamento della presenza militare americana in Afghanistan, il gap strategico tra i due paesi tende ad approfondirsi.

Per gli americani, infatti, l’alleanza ha oggi come ragion d’essere prioritaria quella guerra al terrorismo il cui fronte si allunga da Mogadiscio a Peshawar. Per il Pakistan, il nemico da contenere se non proprio da sconfiggere (anche con qualche pillola di terrorismo) resta l’India. Il new deal nei rapporti tra USA e India avviato alla fine dell’era Bush è in questo quadro ben più importante della supposta offesa alla sovranità nazionale pachistana rappresentata dalla uccisione di Osama bin Laden, il 2 maggio, o dall’andirivieni di agenti della CIA. Nel contempo appare del tutto inevitabile che si creino nuovi più intensi motivi di convergenza tra Pakistan e Cina, la cui espansione in termini economico-commerciali (e più gradualmente di assertività militare) si armonizza con la cosiddetta “ossessione indiana” del Pakistan assai meglio delle responsabilità planetarie statunitensi.

La relationship tra USA e Pakistan si è cementata nel corso dei decenni, in pratica dalla nascita stessa del paese asiatico, che non sarebbe quello che è senza gli ingenti aiuti ricevuti dagli Stati Uniti fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Perfino l’opzione atomica, ora al centro delle preoccupazioni americane, non sarebbe stata possibile senza la collaborazione bilaterale avviata negli anni Sessanta, seppure solo nell’ambito del nucleare civile. La guerra in Afghanistan – in parte a causa della sua durata – ha però scardinato i meccanismi dell’alleanza soprattutto perché ha comportato da parte americana una richiesta perentoria a Islamabad (governo militare o civile, poco importa): sostenere lo sforzo bellico americano e mettere in soffitta le proprie priorità. Dunque, una richiesta praticamente irrealistica.

Nel frattempo è arrivata la ciliegina sulla torta: l’apertura dell’amministrazione Bush alla cooperazione nucleare con l’India. È vero che tale scelta è stata ponderata, se non proprio certificata, quando sembrava che si avviasse un pur timido disgelo tra i due paesi del subcontinente, tra il 2004 e il 2007. È anche vero che in un modo o nell’altro gli USA non potevano prescindere dal coltivare i rapporti con quello che si presenta come un gigante – economico e non solo – nel panorama del XXI secolo. Non a caso, Obama ha confermato le scelte di fondo del suo predecessore.

Ma proprio in questa inevitabilità si cela anche l’intreccio inestricabile di contraddizioni affiorate nei rapporti USA-Pakistan. La crescita dell’India spinge gli USA ad intensificare i contatti con Nuova Delhi tanto quanto fa lievitare l’ossessione pachistana: un’India più forte significa un nemico più forte, col quale si può anche cercare di aprire dialoghi diplomatici, ma che si deve comunque controllare militarmente. Se il Pakistan contribuì a dare forza e visibilità nei primi anni Novanta ai talebani, fu in larga misura proprio per bloccare la crescita dei gruppi filoindiani del Nord dell’Afghanistan. Ed è ben noto che tutto il build up nucleare pachistano è stato in funzione anti-indiana – compresa la più recente fase del programma, che punterebbe alla costruzione di mini- testate con un pericoloso abbassamento della soglia nucleare.

Il rischio oggi molto concreto è che la sfiducia reciproca diventi il vero elemento caratterizzante del rapporto tra USA e Pakistan. Ed entrambe le parti sembrano anzi già prepararsi a tale eventualità. Per Islamabad l’alternativa immediata è costituita dalla Cina: che vede nel Pakistan il naturale ponte verso il Mare Arabico. Non sarebbe una sostituzione indolore (Pechino nel campo militare sarebbe assai meno generosa degli americani), ma non mancherebbero i vantaggi, almeno per certi settori pachistani che contano. Sui diritti umani, la questione della democratizzazione (sostanziale, non solo formale), i possibili compromessi coi talebani, le critiche all’India, i cinesi sarebbero una controparte assai comprensiva e meno problematica. La Cina, inoltre, è pur sempre un partner privilegiato degli USA: dunque, si potrebbe sostenere che un avvicinamento di Islamabad a Pechino non corrisponda a una rottura con Washington.

Oltre all’asse con Pechino, la politica estera pakistana ha trovato recentemente un’altra importante stampella: l’Iran. In questo caso, sarebbe assai più difficile un atteggiamento del “tenere il piede in due staffe”, anche se per ora da Washington non sono giunte critiche esplicite (mentre sono state pressanti, e inascoltate, quelle saudite). In meno di un mese il presidente Asif Ali Zardari è stato due volte a Teheran, dove è stato ricevuto non solo dal suo omologo Mahmoud Ahmadinejad, ma anche dalla guida suprema Ali Khamenei. Improbabile che si sia giunti ad accordi precisi. Ma Teheran e Islamabad hanno preso da tempo a disegnare una “sicurezza” comune, fatta di economia (oleodotti, magari costruiti con l’aiuto cinese), di armi (anche nucleari?), e di piani di pacificazione regionale. Le fonti pachistane hanno infatti insistito sul fatto che molto si è parlato di Afghanistan, con proposte che in altri tempi sarebbero apparse pure esercitazioni retoriche, ma che oggi hanno una chiara valenza: un regime integrato Iran-Pakistan-Afghanistan per il controllo delle frontiere e un meccanismo trilaterale per il contrasto del traffico di droga. Corollario di tutto ciò, come specificato da Zardari: Pakistan e Iran hanno lo stesso vitale interesse alla stabilità dell’Afghanistan, dove auspicano un governo permeabile alle pressioni delle due capitali. Stabilità, dunque, ma a condizioni vantaggiose e alla luce di un’influenza americana che sarà prevedibilmente ridotta.

In effetti, questo ipotetico asse Iran-Pakistan – che peraltro sarebbe gravido di conseguenze anche sul fronte dello scontro sunniti-sciiti – potrebbe rivelarsi un bluff. Ma in ogni caso Washington sta approntando una linea strategica complessiva che consente di ridurre il peso del Pakistan mentre si realizza un progressivo contenimento della Cina (anche mediante i rapporti con le “medie potenze” del Sud-Est asiatico, come Vietnam e Malaysia, e perfino con la Cambogia). La chiave di volta della linea americana resta comunque la partnership con l’India: finora gli Stati Uniti non l’avevano concepita in alternativa a quella col Pakistan. Anzi, ritenevano che rafforzarla favorisse la stabilità regionale e il mantenimento di Islamabad nell’area moderata filo-occidentale (e probabilmente ciò fu vero soprattutto all’indomani degli attentati di Mumbai del 2008, quando Nuova Delhi fu convinta a rinunciare alle rappresaglie). Ora però l’approccio potrebbe cambiare, anche perché la crescita rapida dell’economia indiana spinge inevitabilmente il governo di Manmohan Singh ad una politica di sicurezza più decisa. Inoltre, con l’inizio del disimpegno americano dall’Afghanistan, Nuova Delhi è ormai in pole position per la corsa al ruolo di alleato regionale privilegiato di un qualunque governo di Kabul che non sia inquinato dai talebani. E ciò potrebbe portare Obama a delegare la lotta contro il terrorismo a un attore più affidabile del Pakistan e ben più ostile all’Islam radicale.