Come l’Est può ridefinire l’Europa politica
L’”ondata dei sindaci” a cui l’establishment europeista guardava con speranza si è infranta in Polonia. Alle presidenziali polacche del 1° giugno il sindaco di Varsavia Rafał Trzaskowski non è riuscito a ripetere il successo (inatteso) del collega di Bucarest a quelle rumene del 18 maggio. Il risultato elettorale conferma la Polonia come terreno di prima linea nella disputa politica internazionale tra nazional-populismo con forti tinte conservatrici e contestatrici dell’attuale europeismo, e consenso istituzionale tradizionale. A Varsavia, la presidenza della Repubblica resta appannaggio della prima tendenza, con Karol Nawrocki che succede al collega di partito Andrzej Duda, mentre il governo resta nelle mani della seconda, con Donald Tusk – un liberal-conservatore che esclude ogni intesa con il campo avverso. Queste dinamiche, a cui non vanno mai tenuti estranei gli accadimenti interni all’Ungheria di Viktor Orban, sottolineano il ruolo dell’Europa centro-orientale come uno dei motori principali della costruzione politico ideologica dell’intero continente.
Il testacoda rumeno
A guardare bene però, nessuna delle due è una vittoria del “consenso istituzionale tradizionale”. Il nuovo presidente della Romania ha un profilo insolito – Nicusor Dan è un matematico, e non uno qualsiasi: doppia medaglia d’oro alle Olimpiadi e diplomato alla Scuola Normale Superiore di Parigi. Ma non solo: è un grande attivista civico, schierato e impegnato da anni contro la speculazione edilizia che ha sfigurato varie parti di Bucarest. Nella capitale rumena ha denunciato i rapporti di corruzione tra immobiliaristi e partiti. Con la sua associazione ha fatto causa ai palazzinari che non rispettavano il piano regolatore, in processi diventati memorabili. Si candidò a sindaco, senza mezzi finanziari e circondato da volontari, una prima volta nel 2012, finendo terzo. Ce la fece infine nel 2020, venendo riconfermato lo scorso anno; al suo attivo, ad esempio, il risanamento delle famigerate fogne della capitale.
Nicusor Dan ha vinto un’elezione data per scontata in tasca all’estrema destra nazionalista di stampo trumpiano – benché il presidente degli Stati Uniti si fosse tenuto alla larga dalla campagna elettorale. Il candidato che al ballottaggio del 18 maggio è stato votato dal 54% dei rumeni andati alle urne ha coniugato proposte sociali come l’istituzione di un “banco alimentare” per la popolazione vulnerabile, o nuovi progetti urbanistici per il diritto all’abitare, con proposte di ampliamento dei diritti civili, come l’aborto e il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Se è vero che l’etichetta di “europeista” è spesso arbitraria e abusiva, Dan ha comunque fatto tutta la campagna nel nome dell’integrazione europea e con le bandiere UE bene in vista.
Il voto si è svolto in un clima teso e polarizzato. L’affluenza ha sfiorato il 65%, +11 rispetto al primo turno, cioè un livello raggiunto solo un paio di volte dal 2000 in poi. Entrambi i candidati, Dan e George Simion, si sono posti come uomini del cambiamento: la sconfitta dei candidati filo-governativi al primo turno era stata nettissima, con la classe politica bipartisan, del partito social-democratico e di quello nazional-liberale, che domina il Paese da trent’anni, considerata responsabile della pesante e persistente crisi socio-economica.
E Simion arrivava al ballottaggio da favorito. Il suo slancio al primo turno (41%, contro il 21 del suo avversario), aveva calamitato attorno a lui vari membri dell’internazionale nazional-populista: “saremo i migliori amici di Trump in Europa”, non aveva mancato di specificare Simion.
Figlio di due economisti, racconta di aver presenziato, a 9 anni, all’apertura del primo Mc Donald’s in Romania, e di essere cresciuto con il mito del “ritorno all’Occidente”, l’Occidente delle nazioni “libere e sovrane”, precedente al sistema delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Ciò permetterebbe di risanare l’ingiustizia storica, commessa dal comunismo, della fine del nazionalismo rumeno e delle sue rivendicazioni, concretizzate nell’Unione del 1918 che includeva le regioni storiche di Bessarabia e Moldavia, oggi appartenenti agli Stati ucraino e moldavo: una “Grande Romania” revisionista che Simion porta in forma di spilla, sul bavero. Proprio questo irredentismo nei confronti di due alleati-chiave in Europa come Moldavia e Ucraina (che infatti negano a Simion l’ingresso nel loro Paese) aveva tenuto Donald Trump lontano dalla campagna elettorale.
Inoltre, Simion ha presentato le elezioni come rivincita sulla sentenza della Corte Costituzionale che aveva annullato quelle di novembre, in cui era in vantaggio un altro candidato di destra, Călin Georgescu, con il 23%. Simion si era presentato anche allora, raccogliendo il 14%. A Georgescu, poi anche arrestato, accusato di intesa con la Russia, fondi neri e cospirazione neofascista, era stata vietata la ricandidatura – “colpo di Stato”, hanno detto i suoi. Sembrava che Simion, più presentabile dell’anti-NATO, anti-UE e filo-Putin Georgescu, potesse raccogliere più consenso. E così in effetti è stato, ma non abbastanza per vincere.
Il testa a testa polacco
Ma se Donald Trump si è tenuto fuori dalle presidenziali in Romania, ciò non può dirsi di quelle in Polonia. Il 1° giugno qui il candidato dell’estrema destra, Karol Nawrocki, si è imposto – anche se di un soffio, 50,9% contro 49,1 – sul sindaco di Varsavia, il liberale Rafał Trzaskowski. Una vittoria molto significativa, per vari motivi. Perché avvenuta nel Paese dove l’establishment europeista aveva recuperato il governo, nel 2023, con una coalizione guidata dal primo ministro Donald Tusk, già presidente del Consiglio europeo. Perché avviene in un luogo geopoliticamente cruciale nelle relazioni tra Europa, Russia e Stati Uniti. E perché la Polonia, Paese più importante del blocco centro-orientale della UE, si era trasformata negli ultimi anni in un cardine del processo decisionale europeo, affiancata a Germania e Francia nel famoso “Triangolo di Weimar”.
Nawrocki ha ricevuto l’investitura direttamente da Trump, quando il 2 maggio, invitato alla Casa Bianca, si è sentito dire dal presidente americano “vincerai”. Una settimana prima del voto, il Ministro della Giustizia (Attorney General), Pam Bondi, atterrava a Varsavia per promettere il massimo appoggio americano alla Polonia se avesse vinto il protetto di Washington – un atto di grande valore, per un Paese che considera la Russia come una minaccia esistenziale, e che ritiene prioritario il mantenimento e il rafforzamento dell’accordo securitario-militare tra Europa e Stati Uniti, incrinato proprio dalla presidenza Trump.
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La sicurezza è la preoccupazione principale, quasi ossessiva, per la Polonia: sta già portando la spesa militare al 5% del PIL (è lei il modello che Trump indica al resto della NATO), sta costruendo una barriera – in accordo con i Paesi baltici – al confine con la Bielorussia, ha accolto un milione di rifugiati ucraini, è il punto di passaggio obbligato per i rifornimenti militari occidentali all’Ucraina – tanto che spesso si ventilò l’ipotesi che sarebbe stata bombardata, se quelle armi avessero colpito il territorio russo. E’ coinvolta dunque in prima fila nelle retrovie della guerra che da oltre tre anni si combatte in Europa; fu proprio attraverso voci polacche che le prime notizie sulla responsabilità ucraina della distruzione del gasdotto Nord Stream tra Russia e Germania filtrarono al pubblico. Ha chiesto il dislocamento di testate nucleari americane (o francesi) sul proprio territorio, perché teme un attacco diretto della Russia.
L’attivismo securitario e diplomatico polacco fa storcere la bocca a molti, nel resto d’Europa: d’altronde questo si basa, oltre che sulle contingenze attuali, su un nazionalismo tradizionalmente radicato e orgoglioso, e su rapporti molto solidi con la politica inglese e americana (tra l‘altro, il polacco-americano Zbigniew Brzezinski fu Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza Carter, 1977-81). Vladimir Putin, durante la famosa Conferenza per la Sicurezza tenuta a Monaco nel 2007, notò con sarcasmo rivolto ai colleghi occidentali: “l’unica cosa che non mi dispiace della caduta del Patto di Varsavia è che adesso i polacchi dovete gestirveli voi”.
Non c’è giorno che i polacchi non ricordino che una solida intesa tra Germania e Russia ha significato, nella storia, lo smembramento del proprio Paese. Come è successo nel 1939 per l’accordo tra Hitler e Stalin. Come è successo dal ‘700 al 1918. Quando invece la Germania era frammentata in decine di principati e la Russia era solo un circondario di Mosca, la confederazione polacco-lituana dominava sull’Europa orientale, dal mar Baltico al mar Nero. Quando la Germania e la Russia uscirono malconce dalla Prima guerra mondiale, la Polonia risorse dalle sue ceneri e le sue truppe, guidate dal Maresciallo Piłsudski, marciarono trionfalmente fino a Kiev. L’attuale ferrea intesa con gli Stati Uniti, molto interessati a impedire un qualsiasi riavvicinamento “eurasiatico” tra Berlino e Mosca, serve appunto a evitare che circostanze geopolitiche sfavorevoli alla nazione polacca possano riprodursi.
Il sindaco di Varsavia Trzaskowski aveva un profilo simile a quello del sindaco di Bucarest: europeista, cosmopolita, liberale di orientamento progressista – tanto da scrivere saggi insieme al filosofo tedesco Jürgen Habermas – molto esplicito nel suo appoggio ai diritti civili, molto poco amico della Russia. Ma rispetto all’omologo rumeno, aveva contro il governo degli Stati Uniti. Per l’establishment europeista si tratta di una sconfitta importante. E’ vero che il presidente uscente, Andrzej Duda, era già lui appartenente al partito filo-trumpista Diritto e Giustizia:– aveva battuto sempre Trzaskowski nel 2020, e sempre di un soffio. Dunque si tratta di una conferma, non di un ribaltone. Il punto è che i poteri di veto che il sistema politico polacco attribuisce al Presidente della Repubblica saranno un ostacolo molto serio per il premier Tusk in vista del nuovo episodio dello scontro tra le due fazioni, cioè le elezioni parlamentari del 2027.
La variabile ungherese
La Polonia e la Romania sono divise da un altro Paese piccolo ma importante per gli equilibri europei: quell’Ungheria dominata ormai da quindici anni da Viktor Orban e dal suo partito Fidesz. Tra l’altro, anche in Ungheria sembrò per un periodo che l’opposizione dovesse riunirsi attorno alla figura alternativa del sindaco di Budapest, Gergely Karácsony. Oggi invece sembra farlo attorno a quella di Péter Magyar, fuoriuscito proprio da Fidesz.
E’ chiaro che dopo l’esito elettorale in Romania, anche il passaggio di tutto il sistema istituzionale polacco nelle mani di esponenti amici dell’europeismo istituzionale avrebbe portato un colpo duro al potere orbaniano. Da molti questo è considerato in fase discendente, arroccato su posizioni sempre più retrive, come la recente proibizione delle manifestazioni del Pride, e oscurato da nuove stelle che brillano nell’universo nazional-populista.
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Un tempo punto di riferimento del centrale del trumpismo in Europa, oggi Orban appare snobbato dallo stesso Trump, che non si è presentato a fine maggio alla CPAC di Budapest (né ci ha fatto andare il Segretario alla Homeland Security Kirsti Noem, che due giorni prima però era in Polonia da Nawrocki), mandando soltanto un breve video. Orban ha comunque avuto parole al miele per il presidente americano, definendo la sua seconda vittoria una “svolta per la civiltà”, che “ha restituito al mondo la speranza di pace”, contro “i burocrati guerrafondai di Bruxelles”.
In declino o meno, Orban resta rilevante per l’Europa. Resta il padre dell’internazionale nazional-populista, di cui tutti gli esponenti nelle varie parti del mondo sono stati in qualche modo devoti allievi. Ed è ancora il capo di una delle formazioni della nuova destra al Parlamento Europeo, “Patrioti per l’Europa”, di cui fanno parte tra gli altri il Rassemblement National di Marine Le Pen, il PVV olandese di Geert Wilders, i portoghesi di Chega!, gli spagnoli di Vox, gli italiani della Lega, gli austriaci della FPÖ. Le elezioni ungheresi del 2026 saranno un evento importante per l’evoluzione politica del nostro continente.