Il nucleare civile come arma diplomatica della Russia
Nel continente africano esiste una sola centrale atomica, nei dintorni di Città del Capo: il controllo appartiene attraverso una serie di società sostanzialmente allo Stato francese. Nel Novecento la Francia si è trasformata in una potenza mondiale del nucleare, sia con la sua grande produzione nazionale, sia con l’esportazione della sua energia e del modello delle sue centrali, sia per le relazioni internazionali costruite per garantirsi l’approvvigionamento di uranio, a cominciare dalle sue ex colonie nel Sahel ma non solo. Koeberg, la centrale sudafricana, aprì negli anni ‘80, periodo in cui la produzione nazionale francese si avviava al suo picco, spinta dalla necessità di far fronte alla crisi petrolifera del decennio precedente: sarebbe in breve diventata la seconda del mondo, pari a più di metà di quella statunitense.
Il declino del nucleare civile in Occidente
L’intensità della crescita degli anni ‘80 – un nuovo reattore ogni 17 giorni è stato aperto nel mondo, in quel decennio – ha interessato soprattutto l’Occidente e l’allora Unione Sovietica. Ma se ne vedevano già le crepe: ben prima di Chernobyl (1986), gli Stati Uniti avevano dovuto ridimensionare i propri progetti di espansione grazie alle proteste dell’opinione pubblica, mosse da incidenti e malfunzionamenti negli impianti, e preoccupazioni per il loro impatto sulla salute pubblica e l’ambiente. Nel 1985 Forbes definiva il piano americano per la costruzione di centrali nucleari “il più grande fallimento manageriale della storia”, e la costruzione di altri 120 reattori fu definitivamente cancellata. Austria, Svezia e Italia abbandonarono il nucleare civile via referendum, e Paesi come Germania e Giappone avviarono un piano graduale di smantellamento delle centrali.
Sembrava che la Francia dovesse rimanere la sola portabandiera di un tipo di produzione considerata altrove se non in declino troppo invasiva e pericolosa, con troppe incognite, e sempre in grado di calamitare le proteste dell’opinione pubblica. La Germania è arrivata nel 2019 alla clamorosa decisione di abbandonare del tutto il nucleare civile, per sostituirlo con l’approvvigionamento di gas russo attraverso il Nord Stream: alla Cancelleria sedeva Angela Merkel. Ma il suo predecessore, il socialdemocratico Gerhard Schröder, era stato poi nominato da Gazprom a capo del consorzio per la costruzione del gasdotto russo-tedesco, e in seguito addirittura presidente di Rosneft, altra azienda di stato russa di produzione e commercio di idrocarburi. Fu dunque una decisione “nazionale”, condivisa – e non sorprende che la Germania sia oggi in cattive acque, e vi aumentino i simpatizzanti della Russia, dopo che l’invasione dell’Ucraina e l’esplosione del Nord Stream hanno tranciato di netto il legame su cui il Paese aveva deciso di alimentare tutto il suo sistema produttivo.
Se Berlino prendeva la strada di Mosca, Washington si decideva a portare sul binario morto ogni progetto di ulteriore sviluppo nucleare, pur restando il primo produttore globale (con quasi un terzo del totale dell’energia generata nel mondo nel 2023). Non l’atomo, ma la tecnica estrattiva del fracking, che consentiva di trovare nuovi giacimenti di idrocarburi in profondità e aumentare in maniera decisiva la produzione nazionale di energia, portò infine gli Stati Uniti all’agognata autonomia energetica, negli anni ‘10.
Il Rinascimento del nucleare russo
La Russia andava in un’altra direzione. Da un lato la catastrofe di Chernobyl del 1986, e dall’altro la fine dell’Unione Sovietica e la conseguente crisi generale, avevano fatto credere che Mosca avrebbe perso del tutto la capacità di gestire una rete importante di reattori. E invece, nel giugno del 2024, l’agenzia russa Rosatom ha festeggiato i settant’anni dall’apertura del primo reattore in un clima euforico: nell’ultimo ventennio, come in molti campi, la Russia ha riacquistato il peso strategico che aveva perso nelle disastrose due decadi che ne avevano fatto presagire la fine, quella precedente al crollo dell’URSS e quella successiva, e il nucleare civile è stata parte significativa di questo processo.
Il 2007, anno in cui il New York Times notò “il rinascimento” russo in quel campo, vide il battesimo di Rosatom, dagli avanzi del ministero sovietico dell’Energia Atomica e da altre agenzie. Dimenticata la palude di corruzione che la caratterizzava in passato, Rosatom oggi è all’avanguardia: ha inaugurato da pochi mesi la prima centrale sull’acqua, al largo di Murmansk in Siberia (“Chernobyl sul mare”, ha insinuato qualcuno), e continua a ricevere grandi sostegni economici e politici dal Cremlino. Vende la sua tecnologia in una trentina di Paesi del mondo: il 70% delle esportazioni globali di tecnologia nucleare sono in mano sua, cioè più di quanto abbiano fatto, negli ultimi vent’anni, USA, Francia, Cina, Giappone e Corea del Sud messe insieme. Ciò è dovuto al fatto che lo stato russo anticipa praticamente l’intera spesa per la costruzione dell’impianto, battendo così ogni concorrenza, soprattutto quella degli operatori privati come l’americana Westinghouse. Anche la Cina ha deciso di seguire questo modello, con cui gli Stati occidentali indebitati e privatizzati non possono competere, e molto rischioso per le banche.
Rosatom come braccio geopolitico del Cremlino
Non si tratta però soltanto di un calcolo economico: Rosatom è diventata uno degli strumenti di politica estera e proiezione internazionale della Russia di Putin, sullo stesso piano di Gazprom (gas) e Rosneft (petrolio). Ad Astravets in Bielorussia, ad esempio, ha aperto quattro anni fa la prima centrale nucleare, finanziata al 100% da Mosca sull’unghia con 10 miliardi da restituire in comode rate quarantennali a bassi interessi, con una capacità produttiva enorme, superiore all’intera domanda energetica nazionale. Benché le zone industriali bielorusse siano in altre regioni, Rosatom l’ha costruita accanto al confine con la Lituania, a 40km da Vilnius, facendo infuriare i lituani che da subito hanno approvato una legge che vieta di comprare energia da Astravets, e hanno cominciato esercitazioni di preparazione a un’eventuale catastrofe nucleare.
Quanto al Paese di Alexandar Lukashenko, l’accordo lo vincola a Mosca sul lungo periodo – questo il “vantaggio” del nucleare, da questo punto di vista, perché il costruttore deve garantire carburante, capacità tecnica, sicurezza per decenni. Un quarto del territorio bielorusso è stato contaminato dall’esplosione di Chernobyl (avvenuta subito oltre quella che oggi è la frontiera con l’Ucraina), e il fisico russo Andrei Ozharovsky ha dato voce alle paure e alle critiche sulla sicurezza dell’impianto e sulla zona scelta, segnata nel 1993 come “inadatta” ai reattori. Ma è stato arrestato e deportato fuori dalla Bielorussia. I residenti locali, che prima si dedicavano a contrabbandare vodka, sigarette e benzina nella UE, sono invece stati felicissimi: diventati operai e muratori, impiegati a costruire scuole, case, i reattori della centrale. E una base militare russa.
Lo stesso succede anche dentro l’Unione Europea, come in Ungheria, dove Viktor Orban ha offerto un’accoglienza ben diversa rispetto alla Lituania. Qui Rosatom sta sviluppando due nuovi reattori nucleari nell’unica centrale esistente, quella di Paks. Anche questo progetto è finanziato quasi tutto da Mosca, con 11 miliardi – l’energia nucleare non è inclusa nelle sanzioni europee alla Russia. Renderà Paks capace di soddisfare i due terzi dell’intera domanda energetica ungherese, e rafforzerà di certo i legami tra Budapest e Mosca, e l’influenza di Putin in Europa attraverso Orban.
Naturalmente Rosatom e Vladimir Putin rifiutano di riconoscere qualsiasi intreccio tra energia e politica. Strano a dirsi – visto il costo e le necessità gestionali dei reattori nucleari a fronte di Paesi privi di capitali, di grandi settori industriali da alimentare e di reti efficienti di distribuzione, benché con gran sete di energia – l’Africa è tra i clienti principali di Rosatom. L’agenzia russa ha una divisione africana, con sede a Città del Capo: con il Sudafrica, Paese politicamente vicinissimo a Mosca, e anche ricchissimo di uranio, dall’ex presidente Jacob Zuma era stato firmato (2017) un accordo da 76 miliardi per la costruzione di otto reattori in vari impianti. La caduta di Zuma, travolto da scandali e inchieste per corruzione, ha fermato il progetto. Ma in un Paese flagellato da blackout e crisi energetiche, c’è da star sicuri che Rosatom ci riproverà.
Se il Mediterraneo orientale è stato afflitto in questi ultimi anni da tensioni e conflitti di ogni tipo, mancavano in effetti quelle legate all’energia nucleare. Non più: in Egitto, alleato degli USA di lungo periodo, Rosatom sta costruendo una mega-centrale con quattro reattori dal costo di 29 miliardi, che dovrebbe aprire tra sei anni sulla costa a ovest di Alessandria. E c’è anche l’accordo per una nuova centrale di Akkuyu in Turchia, Paese NATO che non ha disdegnato la collaborazione con Putin su varie questioni, ha comprato sistemi di difesa russi, e ha di recente deciso di aderire ai BRICS, avvicinandosi dunque ancor di più a Mosca.
Sulla costa davanti a Cipro si sta costruendo un impianto che grazie a un accordo speciale resterà per 60 anni in proprietà e gestione totale di Rosatom; l’opposizione ha protestato molto ma il presidente Erdogan ha fatto approvare una legge che rende costituzionalmente impossibile, per un suo successore, annullare l’accordo. Entrambi gli impianti saranno geograficamente “a due passi” dalla base navale russa nel Mediterraneo che ospita anche sottomarini nucleari, a Tartus in Siria. Quello turco sarà anche a due passi dal più grande deposito di bombe atomiche della NATO, la base aerea di Incirlik, usata dall’esercito turco, americano (che tiene lì 5000 aviatori), inglese, saudita e spagnolo per missioni in Medio Oriente.
La penetrazione in Africa sub-sahariana
Tornando in Africa, accordi minori sono stati stretti con Algeria, Ghana, Etiopia, Congo, Nigeria, Ruanda, Sud Africa, Sudan, Tunisia, Uganda e Zambia, Kenya e Marocco. Il concorso di Rosatom Atoms Empowering Africa competition porta ogni anno decine di giovani africani ad avere una formazione politico-tecnologico-culturale nucleare in Russia. Eppure, la diplomazia nucleare russa non si limita a questi Paesi, che includono i principali dell’Africa.
L’offerta di energia è diventata infatti uno dei tre pilastri con cui il Cremlino sta operando la propria penetrazione politica nella regione sub-sahariana – un’area cruciale del continente, per l’accesso alle risorse naturali, per la posizione geopolitica, per il passaggio di traffici legali e illegali di persone e merci. La lunga serie di colpi di stato che si sono verificati nell’area ha avuto spesso il sostegno esplicito delle milizie mercenarie russe ex Wagner – oggi, più eloquentemente, chiamate “Africa Corps”. La Russia può così offrire ai nuovi governanti insediati in Mali, Burkina Faso, Niger, Centrafrica, tre “merci” tanto fondamentali quanto necessarie: la sicurezza (di non essere rovesciati da rivolte o da altri colpi di stato), attraverso le sue forze militari informali. L’approvvigionamento di cibo, soprattutto grazie alla sua crescente produzione di grano, raddoppiata nell’ultimo ventennio. E l’energia, in Paesi che ne sono quasi privi, ma che sono destinati a una grande crescita, dato che a sud del Sahara 600 milioni di persone sono ad oggi senza elettricità.
Se per i golpisti si tratta della classica offerta che non si può rifiutare, di un’assicurazione sulla vita, in realtà, in questo modo, la Russia riesce a rendere dipendenti sia i governi che gli Stati in questione. Un processo che accade – in questo momento – con il favore delle opinioni pubbliche locali: anche grazie al fallimento delle operazioni economico-securitarie francesi negli ultimi anni, la Russia è spesso vista come l’attore che può liberare gli africani dalla presenza oppressiva dei neocolonialisti europei. Una visione facilitata e diffusa dall’Africa Initiative, agenzia mediatica russa appositamente creata, e da decine di migliaia di agenti sui social media. Non solo: un anno di guerra in Medio Oriente ha contribuito ad allargare il fossato tra un Occidente percepito come ipocrita e razzista, e un “Sud del mondo” di cui la Russia vuole farsi rappresentante politico – e da questo punto di vista, i rapporti con gli oltre 50 Stati africani sono cruciali. Nel 2023-4 Burkina Faso e Mali hanno firmato con Rosatom dei “memorandum d’intesa”. I tempi richiesti dalla progettazione delle centrali nucleari – anche se queste non fossero mai realizzate – sono lunghi. Ma con il processo di cooperazione nascono e si mantengono legami politico-economici che superano il breve periodo e le convenienze immediate. E non dimentichiamolo: paga Mosca anticipato.
Per la Russia non ci sono soltanto i vantaggi strategici appena illustrati. Ma c’è anche il guadagno politico di accrescere il proprio peso nelle istituzioni internazionali, a partire dall’ONU. Ad esempio, la risoluzione votata dall’Assemblea Generale in occasione del primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina (febbraio 2023), vide una presa di posizione netta (143 Paesi) contro la Russia. I voti a favore del Cremlino furono solo 7 (tra questi, Mali ed Eritrea). Ma dei 32 astenuti, ben 15 erano Paesi africani. E lo erano 7 su 13 dei non presenti al voto. Questa estate, luglio 2024, l’Assemblea si è trovata a votare un’altra risoluzione contro la Russia, in particolare sull’immediata restituzione della centrale nucleare di Zaporizhzhia all’Ucraina. La sottrazione di questa centrale al controllo di Kiev lascerà al gelo, quest’inverno, milioni di persone in varie province del Paese. Stavolta i voti contro la Russia sono scesi a 99. A favore 9 – con i soliti Mali ed Eritrea. Ma gli astenuti africani sono saliti a 23 (su 60), e i Paesi africani non presenti al voto sono saliti a 12 (su 25). In questa votazione dunque per la prima volta dall’invasione dell’Ucraina la maggioranza dei Paesi africani, cioè 37 su 54, inclusi i più importanti come Egitto, Nigeria o Sudafrica, non ha preso posizione contro la Russia.
Questo tipo di azione è complementare a quella commerciale-industriale cinese, iperattiva in Africa negli ultimi decenni. La Russia non ha i capitali (né l’interesse) per sostenere immensi investimenti infrastrutturali come quelli promossi da Pechino, che invece ha un assoluto bisogno di smaltire il suo surplus industriale. Anche la produzione di beni di consumo cinese, su larga scala e a basso prezzo, trova sbocchi ideali in Africa – mentre dalle industrie russe non arrivano prodotti del genere. La Cina, invece, non opera a livello securitario-militare come la Russia. La tutela delle giunte militari; il mantenimento dell’ordine nelle piazze; la protezione dei giacimenti di risorse da eventuali rivolte o guerre; infine la protezione degli impianti energetici costruiti dalle agenzie russe – sono tutte “necessità” che spingono i governi locali ad accettare l’arrivo di personale militare, ufficiale o meno, dalla Russia. Un fattore che spiega come mai l’avvicinamento politico tra questi Paesi e Mosca sia così repentino.
Qualcuno in Europa e in America ha chiesto che l’energia nucleare sia finalmente aggiunta alla lista delle sanzioni contro la Russia. Qualcun altro ha fatto notare che Rosatom fornisce un quinto dell’uranio arricchito usato nel mondo per far funzionare le centrali nucleari, e che i suoi primi clienti in quest’ambito – Stati Uniti e Unione Europea – potrebbero dover chiudere i loro reattori, nel caso. Come nel caso del gas, sono i prezzi bassi a garantire le vendite di Rosatom. Se un provvedimento del genere fosse preso, dovremmo prepararci a un ulteriore aumento dei prezzi dell’energia.