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Una nuova mappa del Medio Oriente?

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 Israele ha cambiato profondamente il quadro strategico: nell’arco di pochi giorni, una situazione di accerchiamento complessivo (a nord e ad est) e di quasi-stallo militare a Gaza (a sud) è stata trasformata in un’offensiva diversificata e su larga scala. L’effetto principale è di mostrare la vulnerabilità dei gruppi armati accomunati dall’obiettivo dichiarato di distruggere lo Stato di Israele, e del loro maggiore sostenitore, la Repubblica Islamica dell’Iran.

Il sito del bombardamento con cui Israele ha ucciso il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah

 

Ad essere indicativo – e per la verità alquanto inaspettato – è il raggio geografico delle operazioni militari israeliane, in una sequenza di intensità crescente che in realtà prosegue da circa sei mesi: in aprile, contro il complesso dell’ambasciata iraniana in Siria; in luglio, a Beirut contro uno dei capi militari di Hezbollah; appena un giorno più tardi, contro una residenza ufficiale del governo iraniano a Teheran (per colpire il capo politico di Hamas); a settembre, contro numerosi obiettivi libanesi usando i “pager” e i “walkie talkie”; contro gli Houthi in Yemen; fino agli attacchi aerei più estesi degli ultimi giorni e all’operazione di terra lungo il confine con il Libano finora controllato da Hezbollah.

In ognuno di questi casi tra le vittime c’è stata una o più figure-chiave delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, di Hamas, di Hezbollah, o di altri gruppi che afferiscono al cosiddetto Asse della Resistenza. In sostanza, è in corso un’offensiva su un fronte molto ampio per cambiare l’intero assetto militare (e probabilmente politico) della regione attorno a Israele. Più precisamente, la volontà è di spezzare la catena che per lungo tempo è sembrata stringere lo Stato ebraico in una morsa. E’ innegabile, comunque, che al centro di questo coacervo di milizie e attori armati ci sia Teheran; perfino se tale non fosse la nostra valutazione come osservatori esterni, è la percezione di Israele, che conta assai di più.

 

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La complessità di questo quadro è data dalla parziale autonomia decisionale e operativa dei singoli componenti del famigerato “Asse” – nessuno dei quali, si dovrebbe sempre ricordare, si presenta come se ne facesse davvero parte. Ci sono infatti agende, obiettivi, e dinamiche prettamente locali che sfuggono al controllo del governo iraniano; anzi, a ben guardare ci sono sommovimenti a volte imperscrutabili (dall’esterno) nella stessa leadership iraniana, che come ben noto ha almeno tre “anime” – la Guida Suprema, le Guardie Rivoluzionarie (Pasdaran), la Presidenza e gli altri organi di governo.

Le scelte politiche e militari di questi attori non sono sempre allineate, come suggerisce ad esempio il riferimento reiterato alla sospensione delle sanzioni internazionali da parte dell’attuale Presidente, Masoud Pezeshkian, che di fatto contrasta con l’obiettivo prioritario di accelerare il programma nucleare. Se ciò è vero, allora esiste quantomeno uno spazio di manovra per la diplomazia, che è stato praticamente ignorato dal giorno in cui l’allora presidente Donald Trump annunciò di voler abbandonare l’accordo nucleare (multilaterale) del 2015.

In altre parole, se il problema di fondo è a Teheran, quello è effettivamente il nodo gordiano: ma, per restare in metafora, i nodi si possono sciogliere, oltre che tagliare. E’ qui che la strategia seguita finora da Israele mostra la sua falla principale: mentre è comprensibile la volontà di sradicare Hamas da Gaza (per quanto si stia dimostrando difficile pur dopo un anno di sanguinose operazioni militari) e di depotenziare Hezbollah in Libano (vedremo con che livello di successo), non è davvero nell’interesse israeliano entrare in una guerra prolungata con l’Iran, che produrrebbe un tasso di incertezza elevatissimo nell’intera regione perfino a prescindere dai costi immediati dello scontro militare – si pensi alle molte ripercussioni del collasso dell’Iraq dopo il 2003 e della guerra civile siriana dal 2011. Qualunque opinione si abbia della “riformabilità” di un regime come quello teocratico iraniano, è chiaro che da tempo esso include anche esponenti disponibili a un dialogo limitato e selettivo, come dimostra se non altro il già ricordato accordo del 2015.

 

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E’ difficile immaginare che il governo Netanyahu intenda rovesciare in qualche settimana gli Ayatollah, ma certo può aver calcolato che la forza apparente di quel regime sia superiore a quella reale, e perfino che un rivolgimento interno sia possibile a seguito di un forte shock esterno. Il problema è che questo esito non è affatto garantito, visto che il nazionalismo persiano è probabilmente assai più solido della lealtà dei cittadini iraniani ai suoi leader teocratici, e che dunque i tempi di un’evoluzione politica radicale nel Paese sono quasi certamente lunghi. In breve, Israele deve evitare di risvegliare la nazione persiana nel tentativo di indebolire e destabilizzare l’attuale governo della Repubblica Islamica.

Forse paradossalmente, proprio in una fase così critica e piena di pericoli ulteriori si intravvedono gli spiragli di alcune soluzioni non violente e negoziate. Un Iran che viene in parte privato dei suoi tradizionali proxy potrebbe essere più disposto a discutere, concentrandosi sui propri interessi diretti invece che su un ruolo regionale da guastatore; e potrebbe magari essere aperto a un’interlocuzione con Washington, visto che nella sua prospettiva la minaccia principale viene ora chiaramente da Israele e non dagli USA. Potrebbe infine essere sensibile a qualche proposta specifica che provenga dalle monarchie sunnite, le quali osservano la distruzione di asset militari sciiti ma non vogliono certo un esito in cui Israele goda di una superiorità indiscussa nell’intera regione.

Per esplorare un sentiero del genere, strettissimo e in salita, si deve andare ben oltre gli Accordi di Abramo del 2020, che peraltro sono spesso travisati: l’impostazione di quell’intesa (rimasta comunque allo stadio preliminare) era tutta incentrata proprio sull’isolamento dell’Iran, nell’illusione che accrescere la tensione lungo uno degli assi mediorientali avrebbe consentito di fare progressi diplomatici lungo l’altro (tra alcuni regimi sunniti e Israele). Era, e resta, un’illusione pericolosissima, perché lascia a Teheran il pretesto per proseguire lungo la sua linea oltranzista di sabotaggio regionale, mentre non impedisce affatto a Paesi come l’Arabia Saudita di trattare (in parte sottobanco) proprio con Teheran, e intanto taglia fuori del tutto la questione palestinese – come se ignorarla fosse un modo per farla scomparire.

 

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Quando Benjamin Netanyahu ha mostrato all’Assemblea Generale dell’ONU le due mappe che a suo parere rappresentano il bivio di fronte alla comunità internazionale, ha in effetti deformato la seconda (con il corridoio che collega l’Indopacifico al Mediterraneo), cioè quella della “benedizione” che si contrappone alla geografia della “maledizione” (l’Asse della Resistenza): la mappa che può portare la regione verso un futuro migliore non può escludere l’Iran, come se fosse un vuoto da aggirare. Deve, al contrario, creare con pazienza le condizioni per connettere stabilmente anche quel territorio e i suoi abitanti al resto del mondo.

Netanyahu mostra le mappe della “maledizione” e della “benedizione” durante il suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU del 27 settembre 2024

 

Si deve quindi distinguere tra diversi piani di analisi e di policy: dal punto di vista di Israele, le operazioni in corso sono in parte preventive e servono a ristabilire un rapporto di deterrenza più favorevole contro avversari multipli e senza scrupoli; dal punto di vista della comunità internazionale (e certamente di USA e Unione Europea), si deve però guardare più avanti e più lontano, verso un assetto regionale che non poggi soltanto sul precario equilibrio delle armi. Si è visto ormai nel modo più drammatico che quell’equilibrio viene spezzato facilmente anche se gli armamenti disponibili sono molti e qualitativamente avanzati.

Le richieste di tregue e “cessate il fuoco” hanno poco senso, e infatti non vengono ascoltate, se non si accompagnano a un progetto realistico di riassetto territoriale e soprattutto politico. Le operazioni militari in corso confermano che la questione è ben più ampia dei confini di Israele; passare dalla guerra ai negoziati richiederà una visione almeno altrettanto ampia, che comprenda e non escluda l’Iran.