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Sudan: due anni di una guerra civile che può diventare regionale

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Sono passati due anni dallo scoppio della guerra civile in Sudan (vastissimo Paese con oltre 40 milioni di abitanti), che dal 15 aprile 2023 oppone le forze armate regolari alle Forze di supporto rapido – rispettivamente SAF e RSF secondo i loro acronimi inglesi. Un conflitto nato a causa di una lotta per il potere che ha origini interne ma che si è esteso attraverso ramificazioni regionali e internazionali.

Sarebbe miope considerare l’attuale guerra civile come un episodio a sé stante: dalla sua indipendenza nel 1956, il Sudan ha vissuto una concatenazione di conflitti armati che possono essere considerati come un’unica “never ending war” che ha accompagnato la costruzione dello Stato sudanese e che continua ad affliggerlo anche dopo la secessione, nel 2011, delle regioni meridionali (oggi Sud Sudan, pari a circa un terzo del territorio originario). Gli squilibri centro-periferia, l’accaparramento delle risorse naturali, il predominio dei militari sulla scena politica, la frammentazione delle forze armate, il displacement di massa della popolazione civile sono solo alcune delle cicatrici lasciate da questa scia di conflitti e fanno da sfondo anche alla crisi attuale.

 

L’ultimo capitolo di una guerra senza fine

Le origini contingenti del conflitto sono da ricercare nel fallimento della transizione politica innescata dal rovesciamento del presidente Omar al-Bashir nell’aprile 2019, a seguito di manifestazioni di piazza verificatesi in tutto il Paese. Analogamente a quanto avvenuto ad Hosni Mubarak nel confinante Egitto con la rivoluzione di piazza Tahrir del 2011, il presidente non ha accettato di cedere il potere ma è stato destituito dall’esercito stesso, che ha ordinato il suo arresto assieme a quello di tutti i maggiorenti del suo apparato di governo. L’intento degli ufficiali era chiaro: sacrificare la testa del regime per mantenerne in vita il corpo, sull’esempio di quanto orchestrato pochi anni prima dai loro omologhi egiziani. Soprattutto, era importante per l’esercito mantenersi al centro del sistema politico, gestendo la transizione e resistendo alle pressioni popolari che invocavano il ritiro dei militari nelle caserme e l’instaurazione di un governo interamente civile.

Tra perduranti proteste, reazioni violente degli apparati di sicurezza – in particolar modo la strage del 3 giugno 2019, quando le autorità decisero di sparare sui manifestanti a Khartoum, facendo almeno 120 morti – e negoziati tra le parti facilitati da mediatori internazionali (in particolare la “troika” composta da Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia, assieme a importanti partner regionali come Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Etiopia e Unione Africana), si è giunti nell’agosto 2019 a una Dichiarazione Costituzionale che prevedeva la creazione di istituzioni transitorie composte da rappresentanti militari e civili.

 

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Queste avrebbero dovuto condurre il Paese, nell’estate del 2023, ad elezioni democratiche. Ma è apparso da subito molto difficile che gli ufficiali, che avevano guidato il Sudan per cinquantadue dei suoi sessantatré anni di vita, potessero pacificamente rinunciare al potere attraverso una transizione costituzionale. Per questo, pochi si sono sorpresi quando nell’ottobre 2021 Abdel Fattah al-Burhan, emerso come il nuovo uomo forte dell’apparato militare, ha destituito il governo di transizione ponendo termine al compromesso siglato due anni prima e restaurando, di fatto, un regime militare.

 

Le RSF, uno Stato nello Stato

È in questo contesto che è emersa la rivalità tra l’esercito e le RSF, milizia che ha origine tra i famigerati janjaweed, gruppi armati irregolari formatisi nei primi anni Duemila in Darfur, una regione vasta quasi come la Francia e posta all’estremità occidentale del Sudan, al confine con Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana. Anticamente un potente sultanato, il Darfur è divenuto una regione marginale negli equilibri di potere del Sudan indipendente. Il governo centrale è riuscito a fiaccare le rivendicazioni politiche della regione fomentandone la divisione interna, soprattutto giocando in maniera spregiudicata sulle rivalità tra le comunità africane “nere” e quelle arabe, sebbene la realtà sul terreno fosse ben più meticcia di ciò che una tale dicotomia potrebbe suggerire. Nel 2003, alcuni movimenti ribelli espressione prevalentemente delle comunità africane (Fur, Masalit, Zaghawa) hanno preso le armi contro il governo di Khartoum, il quale a sua volta ha incoraggiato e armato i janjaweed per reprimere la rivolta. Parte di questi ultimi, sotto la guida di Mohamed Hamdan Dagalo (noto con il soprannome Hemetti), nel 2013 è stata inquadrata all’interno dell’apparato di sicurezza statale per volere di al-Bashir, assumendo la sua denominazione attuale.

Nelle intenzioni dell’allora presidente, le RSF dovevano pattugliare i confini, essere a disposizione in situazioni di emergenza e, soprattutto, agire come sua guardia pretoriana. Nel corso degli anni esse sono tuttavia cresciute come un vero e proprio esercito parallelo, consolidando la loro presa sul Darfur e sulle sue lucrative miniere d’oro, sfruttate in collaborazione con il Gruppo Wagner, milizia mercenaria legata al Cremlino e presente nella confinante Repubblica Centrafricana. A partire dal 2015, inoltre, Hemetti ha creato significativi legami con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (UAE), inviando tra i 30.000 e 40.000 dei suoi uomini a combattere in Yemen contro gli Houthi. Parallelamente, le RSF hanno stabilito contatti con il generale libico Khalifa Haftar (che governa di fatto la Cirenaica, cioè quasi metà del territorio del suo Paese) e con la galassia di milizie musulmane centrafricane note come Séléka.

La deflagrazione di una nuova guerra in Sudan nell’aprile del 2023 è da attribuire all’intenzione di al-Burhan – sempre più timoroso del potere economico e militare delle RSF e delle ambizioni politiche del loro leader – di integrare forzosamente nell’esercito la milizia di Hemetti, ponendola sotto la catena di comando delle forze armate regolari. Ne è nato uno scontro armato che, per la prima volta nella storia del paese, ha portato alla devastazione di Khartoum e alla fuga di buona parte della sua popolazione. Solo tra la fine di marzo e la metà di maggio, dopo due anni di combattimenti ininterrotti, l’esercito è riuscito a riconquistare la capitale e i distretti circostanti. Nel frattempo, nelle regioni che si trovano su una lunghissima linea del fronte che va dalle pendici dell’altopiano etiopico ad est fino al confine con il Ciad ad ovest, si sono consumati combattimenti che hanno causato un numero incalcolabile di vittime e messo in ginocchio l’economia rurale, spingendo centinaia di migliaia di persone sull’orlo della carestia.

 

Medie potenze in una guerra trans-regionale

In Darfur, secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, le RSF hanno compiuto un vero e proprio genocidio ai danni della popolazione Masalit. Questa dichiarazione, accompagnata da sanzioni che hanno colpito Hemetti, alcuni uomini della sua cerchia più ristretta e diverse aziende legate alle RSF basate negli Emirati, è stata uno degli ultimi atti dell’amministrazione Biden, che ha successivamente sanzionato anche al-Burhan e altri ufficiali dell’esercito. Donald Trump, che già nel suo primo mandato aveva mostrato un sostanziale disinteresse verso l’Africa, non è sembrato fare eccezione per il Sudan dopo il suo nuovo insediamento alla Casa Bianca.

Su un altro versante, il coinvolgimento russo in Sudan, che tanto ha fatto parlare nei primi mesi della guerra, non pare avere ormai reali risvolti sulle dinamiche belliche, specie dopo che il Gruppo Wagner è stato rinominato e soprattutto ridimensionato nella sua autonomia, dopo la morte del suo capo Evgeny Prigozhin. La Cina, investitore chiave nello sviluppo del settore petrolifero in Sudan, sostiene l’esercito, ma è storicamente molto riluttante ad ingerirsi attivamente in quelle che considera questioni interne altrui, anche quando ad essere coinvolti sono suoi partner.

Come molti conflitti periferici, quello sudanese è pertanto divenuto teatro d’elezione dell’attivismo delle medie potenze, che puntano ad ampliare le loro sfere di influenza regionali. A rendere più complesso il quadro è il fatto che il Sudan si trova al crocevia di una molteplicità di sistemi regionali (Corno d’Africa, Mar Rosso, valle del Nilo, Sahel), ciascuno percorso da rivalità e protagonismi confliggenti.

Al-Burhan e i suoi sodali sono sostenuti dall’Egitto, che ha un legame storico di lunga data con le forze armate sudanesi, e dall’Iran, forte di un’alleanza con il regime di al-Bashir che, sebbene “congelata” nel 2015 a seguito dell’ingresso del Sudan al fianco di Arabia Saudita e UAE nella coalizione anti-Houthi, è stata riattivata da al-Burhan nel momento del bisogno.

Il capo dell’esercito ha inoltre profuso molte energie nell’assicurarsi la lealtà dell’Eritrea, fondamentale per garantire la stabilità del Sudan orientale, la cui principale città, Port Sudan (maggiore porto del Paese, sul Mar Rosso), è divenuta sede delle istituzioni esecutive e del comando dell’esercito. Militarmente, infine, un alleato fondamentale per le forze armate sudanesi è oggi la Turchia, da anni protagonista di una politica estera “neo-ottomana” nel Mar Rosso e nel Corno d’Africa. Complice il riavvicinamento di Ankara con il Cairo dopo un decennio di gelo diplomatico, dopo un’iniziale fase attendista la Turchia ha accettato di fornire al Sudan i droni Bayraktar, che hanno consentito alle truppe di al-Burhan di invertire le sorti di un conflitto che, fino all’estate del 2024, aveva visto prevalere le RSF.

Queste ultime possono continuare a contare sul sostegno degli Emirati, loro principale sponsor politico e militare sin dall’inizio del conflitto, sebbene molti osservatori ritengano che, nel medio-lungo periodo, il sostegno a una milizia apertamente accusata di genocidio possa nuocere alle ambizioni internazionali di Abu Dhabi, basate più sull’influenza economica, il controllo della logistica marittima e il soft power che sulla proiezione militare. Resta da vedere se tali timori si tradurranno nel sostegno emiratino alla ricerca di una ricomposizione politica del conflitto, anche se è impensabile che gli Emirati possano proporsi come mediatori dato il loro attivo coinvolgimento nel conflitto.

 

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Per tale ruolo è più accreditata l’Arabia Saudita, che ha evitato di prendervi apertamente parte e, nel primo anno dallo scoppio della guerra, ha tentato di intavolare una mediazione assieme agli Stati Uniti, senza successo. Tuttavia, anche Riyadh appare sempre più coinvolta nella contrapposizione tra esercito e RSF, come emerso in una conferenza diplomatica convocata a Londra in aprile per discutere del Sudan e sfociata in un nulla di fatto a causa dello stallo tra le posizioni espresse da Egitto e Arabia Saudita, viste come favorevoli alle autorità di Port Sudan, e quelle espresse dagli Emirati.

 

Il Corno d’Africa sull’orlo del precipizio

Il prolungarsi della guerra civile in Sudan, oltre a portare alla completa devastazione del Paese, accresce le probabilità di una destabilizzazione su vasta scala del Corno d’Africa “allargato”. Il candidato più immediato a uno scontro diretto con il Sudan è il Ciad, accusato da Khartoum – con prove difficilmente confutabili – di sostenere le RSF facendo transitare sul proprio suolo armi e combattenti provenienti dagli Emirati e facilitandone l’ingresso in Darfur.

Sull’altro versante, l’Etiopia continua ad essere preda di tensioni etniche e dell’irrisolta questione del Tigrai (regione settentrionale del Paese, confinante con il Sudan), cui si aggiungono rinnovate schermaglie con l’Eritrea. Addis Abeba è riuscita a tenersi sostanzialmente neutrale rispetto alle vicende in Sudan, ma i due Paesi sono legati da una irrisolta questione di confine.

 

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Il Sud Sudan, dopo l’ennesimo arresto del vicepresidente Riak Machar, vive sull’orlo della guerra civile e, se questa dovesse scoppiare su larga scala, sarebbe probabile un abbraccio mortifero che vedrebbe da un lato il governo di Juba alleato delle RSF e dall’altro l’esercito sudanese a sostegno di Machar. Si è già accennato al ruolo dell’Eritrea, capace di influenzare le dinamiche politico-militari nel Sudan orientale: al momento Asmara è allineata con al-Burhan, ma il presidente eritreo Isaias Afewerki rimane un leader poco affidabile e non nuovo a cambi di fronte.

Il Kenya, che ha svolto un ruolo importante nella mediazione di pace che ha portato alla fine della guerra civile e alla nascita del Sud Sudan, ambisce a porsi come peacemaker regionale. Tuttavia, lo scorso febbraio ha inspiegabilmente permesso alle RSF e ai loro alleati di tenere a Nairobi un incontro in cui è stata annunciata la prossima costituzione di un “governo legittimo” in esilio. In risposta, al-Burhan ha ordinato il ritiro dell’ambasciatore sudanese in Kenya, e, soprattutto, il blocco a tutte le importazioni di prodotti kenyoti in Sudan. A livello diplomatico regionale, l’unico sviluppo positivo degli ultimi mesi è l’elezione a presidente della Commissione dell’Unione Africana di Mahmoud Ali Youssouf, ex ministro degli Esteri di Gibuti, navigato conoscitore della regione e privo di conflitti d’interesse rispetto al conflitto in corso. L’Unione Africana ha tuttavia pochi incentivi a disposizione per spingere le parti a un dialogo che né le forze armate né le RSF sembrano interessate a intraprendere.

In Sudan, a quanto emerge dalle testimonianze sul campo, la maggioranza della popolazione auspica una vittoria dell’esercito. Ma è un sostegno che nasce più dall’avversione verso le RSF che da un autentico sostegno verso le forze armate regolari. La realtà è che i civili, dopo essere stati defraudati nel 2021 di una transizione democratica guadagnata con la voce e con il sangue nelle piazze, si sono trovati schiacciati tra l’incudine e il martello di un conflitto tra due fazioni armate in cui non c’è più spazio per il dialogo politico, anche a causa di ingerenze esterne che contribuiscono a prolungare un conflitto militare che rischia di estendersi all’intera regione.