international analysis and commentary

Come instabilità cronica e ingerenze incaute hanno portato a una nuova guerra civile in Sudan

1,378

Il 15 aprile scorso la già fragile e incompiuta transizione del Sudan verso la democrazia si è arrestata con lo scoppio della guerra civile. Lo scontro è tra l’esercito regolare sudanese (Sudanese Armed Forces – SAF) guidato dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, e i paramilitari delle forze di supporto rapido (Rapid Support Forces – RSF), guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche col nom de guerre Hemeti. I due ufficiali in conflitto l’uno contro l’altro sono oggi rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio Sovrano del Sudan, organo di governo del Paese istituito nel 2019 dopo la fine del regime trentennale di Omar al-Bashir e che con un colpo di stato militare dell’ottobre 2021 è stato epurato delle componenti civili, divenendo de facto una giunta militare.

Lo scontro è iniziato con l’assalto da parte delle RSF a installazioni militari strategiche, come caserme e aeroporti, in tutto il Paese, e si è progressivamente concentrato nella capitale Khartoum, con i suoi cinque milioni di abitanti, dove la violenza dei combattimenti, che vedono anche l’impiego anche di artiglieria e bombardamenti aerei, ha spinto i governi stranieri a evacuare staff diplomatici e cittadini espatriati. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno alcune centinaia di persone hanno già perso la vita e altre migliaia sono rimaste ferite.

La causa scatenante e manifesta del conflitto è il disaccordo sull’integrazione prevista dei paramilitari nell’esercito regolare, voluta sia dai militari stessi sia dalle componenti filodemocratiche della società sudanese, che avrebbe dovuto essere sancita da un accordo la cui firma, mai attuata, era inizialmente prevista per il 1° aprile. Dagalo ha temuto che l’operazione lo privasse del proprio potere, soprattutto una volta che la transizione verso un nuovo governo civile, prevista da un accordo siglato a dicembre scorso, fosse stata attuata. Per pareggiare i conti, avrebbe quindi chiesto che al-Burhan fosse sostituito da un civile, ottenendo però il secco rifiuto del generalissimo.

Soldati delle forze armate sudanesi. L’esercito possiede artiglieria pesante e aviazione, ma le RSF sono meglio addestrate.

 

Le radici di questo scontro di potere affondano però nella cronica instabilità del paese e nella sua travagliata storia. All’indipendenza nel 1956, dopo essere stato un condominio anglo-egiziano, lo Stato conosciuto come “Sudan” si è ritrovato popolato da centinaia di gruppi etnici diversi, talvolta separati dai propri cugini dagli astratti confini coloniali, e con una maggioranza araba e musulmana. La parte meridionale del Paese, di religione cristiana e animista e di etnie non arabe, ha combattuto due lunghe guerre culminate nel 2011 nell’indipendenza del Sud Sudan.

L’ascesa delle RSF è figlia invece del conflitto divampato a partire dal 2003 nella regione occidentale, nota come Darfur, dove la linea di faglia non è religiosa ma etnica: da una parte popolazioni subsahariane di agricoltori stanziali che si disputano terre e acqua, in un Paese colpito periodicamente da siccità gravissime, dall’altro allevatori nomadi di etnia araba. Durante il conflitto, in larga parte sedato con un accordo nel 2020, il governo ha protetto e sponsorizzato le milizie degli allevatori, note come janjaweed, “i diavoli a cavallo”, che si sono rese responsabili di un vero e proprio genocidio ai danni degli avversari.

 

Leggi anche: Il conflitto che continua in Sudan, tra rischio di guerra civile e interessi internazionali

 

Dagalo, nato in Darfur da una famiglia povera di origini arabo-ciadiane, ha fatto carriera proprio come comandante di una milizia janjaweed. Quando nel 2013 queste sono state riorganizzate e formalmente inquadrate nelle RSF, il generale ne è divenuto subito il leader. Oltre alla repressione dei ribelli, negli anni a seguire i paramilitari hanno svolto controlli frontalieri, riuscendo anche a ottenere fondi europei per il contrasto dei fondi migratori, e costituito un corpo di spedizione all’estero, combattendo per il generale Haftar in Libia e per il governo filo-saudita in Yemen. Nel frattempo, i suoi ranghi si sono gonfiati fino a contare gli attuali 100.000 effettivi, circa lo stesso organico delle forze armate regolari.

Hemeti ha dimostrato anche talento per gli affari e la politica, con i suoi metodi. Nel 2017 si è infatti impadronito delle miniere d’oro del comandante janjaweed rivale Musa Hilal ed è così divenuto, attraverso la sua azienda al-Junaid, il maggior commerciante d’oro del Paese, espandendo poi i suoi affari in altri settori quali infrastrutture, automobili e bestiame fino a diventare l’uomo più ricco del Sudan. Tuttavia, l’ex mercante di cammelli resta malvisto dalle élite della capitale, che lo considerano provinciale e ignorante. Maggior presa sull’alta società sudanese ha invece il suo rivale al-Burhan, dal cursus honorum più classico. Sebbene entrambi gli uomini forti abbiano fatto carriera sotto il regime islamista di Omar al-Bashir, salvo voltargli entrambi le spalle quattro anni fa quando lo deposero sotto spinta delle proteste di piazza, il capo delle forze armate è rimasto maggiormente legato ai circoli vicini al deposto dittatore, in particolare al clan Kizan, considerato a sua volta vicino alla Fratellanza Musulmana.

Superstite di un attacco dei janjaweed a un villaggio del Darfur. Le Nazioni Unite stimano che le milizie arabe, e le RSF loro evoluzione, siano responsabili della morte di 400.000 persone nella regione a partire dal 2003.

 

I Paesi vicini e le medie e grandi potenze sono finora state restie a schierarsi apertamente nel conflitto, sebbene ci siano naturalmente propensioni ufficiose e sebbene abbiano in alcuni casi favorito l’ascesa di una o dell’altra fazione.

L’Egitto si è ritrovato catapultato nel conflitto quando le RSF hanno conquistato la base aerea di Merowe, nel nord del Sudan, e hanno fermato 27 militari egiziani che si trovavano lì per addestramenti congiunti, salvo poi rilasciarli presso l’ambasciata egiziana a Khartoum. Il Cairo ha coltivato solidi rapporti con le forze armate regolari, in previsione di un possibile conflitto con l’Etiopia legato alla disputa della diga realizzata a monte sul Nilo Azzurro da Addis Abeba.

 

Leggi anche: Il Nilo della discordia

 

Tuttavia, la debolezza dell’economia egiziana, pericolosamente sull’orlo di una crisi, e la persistenza dell’insorgenza islamista in Sinai sconsigliano ad al-Sisi di impegnarsi in avventure fuori porta. Chi invece sembra intenzionato a occuparsi degli affari del suo vicino è il Ciad, da cui proviene la famiglia di Dagalo: il comandante delle RSF, oltre a usare il Paese sia come retroterra logistico sia come fonte di reclutamento, supporterebbe i ribelli che mirano a rovesciare il presidente Déby.

Guardando agli attori regionali, gli Emirati Arabi Uniti per la verità sono stati additati da più fonti, incluso l’ex capo dell’intelligence sudanese Salah Gosh, come eminenza grigia dietro le RSF. Abu Dhabi, come pure l’Arabia Saudita, pur vedendo come fumo negli occhi i fratelli musulmani vicini ad al-Burhan, ha mantenuto un atteggiamento di pragmatica ambivalenza. Quando i due generali erano ancora alleati, le monarchie del Golfo hanno del resto venduto armi a entrambi e ne hanno reclutato decine di migliaia di uomini per combattere in Yemen a favore dei governi da loro sostenuti.

 

Leggi anche: Le monarchie del Golfo e il controllo delle “porte dell’Africa”

 

Una destabilizzazione completa del Paese andrebbe inoltre a ledere gli interessi emiratini e sauditi: Abu Dhabi ad esempio si è impegnata in un investimento di 6 miliardi di dollari per creare una filiera di approvvigionamento alimentare in Sudan, mentre Riad già è alle prese con migliaia di rifugiati che hanno attraversato il Mar Rosso per sfuggire al conflitto.

Mappa del Sudan. Il paese è grande sei volte l’Italia e ha 45 milioni di abitanti. (Fonte: Enciclopedia Britannica)

 

Delle grandi potenze, solo la Russia si mostra parte veramente attiva e non a favore della risoluzione del conflitto. Mosca è da tempo impegnata a espandersi nella fascia saheliana, sfruttando la debolezza di Paesi alle prese con l’emergenza climatica e conflitti civili, come la Repubblica Centroafricana, e  in particolare attraverso l’operato della rete paramilitare di Evgenij Prigožin, il femigerato Gruppo Wagner. In cambio di armamenti e dell’invio dei suoi mercenari come addestratori, il miliardario vicino a Putin ha ottenuto concessioni minerarie per la sua Meroe Gold, con cui ha contrabbandato oro per quasi due miliardi di dollari in patria. Inoltre, la giunta sudanese lo scorso febbraio ha concesso a Mosca il proprio via libera alla realizzazione di una base navale russa a Port Sudan, sul Mar Rosso. Oggi però i russi sembrano aver puntato su Dagalo, magnate dell’oro, come proprio cavallo vincente, tanto che, nonostante le smentite ufficiali, il Gruppo Wagner ha fornito alle RSF missili antiaerei con cui azzerare il vantaggio dell’aviazione delle SAF.

Scarso interesse o volontà hanno invece dimostrato, e non da oggi, sia la Cina sia gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Pechino vede il conflitto come un ennesimo turbamento dei propri affari, essendo diventata uno dei maggiori investitori nel Paese, in particolare nel settore petrolifero dove fornisce tre quarti dei capitali. La Cina ha preferito quindi non parteggiare e si è limitata a unirsi al coro di invocazione del cessate il fuoco. Sia Washington sia l’Europa partono in difetto, avendo scelto di non sanzionare i due generali dopo il golpe del 2021 e le brutali repressioni delle proteste civili che ne sono seguite. Una linea morbida che oggi rende però molto più difficile spegnere l’incendio una volta divampato.