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L’unità della UE sull’Ucraina: superare il dissenso franco-tedesco

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Nella UE bisogna sempre trovare il consenso a 27 o quasi. Tuttavia quando il problema riguarda un dissenso fra due Paesi importanti, la mina deve essere disinnescata con procedure e formati adatti. La cosa è particolarmente delicata quando il dissenso è fra Francia e Germania; due Paesi il cui consenso non basta più da solo a consolidare l’unità dell’UE, ma il cui dissenso rende questa unità impossibile da raggiungere.

Il presidente francese Emmanuel Macron, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz e il Primo Ministro polacco Donald Tusk a Berlino il 15 marzo

 

Gli altri membri, in particolare l’Italia come aspirante “terzo grande”, non nascondono la loro irritazione per questi episodi da cui sembra dipendere il futuro dell’Unione, ma allo stesso tempo sono coscienti che in qualche modo l’ostacolo va rimosso. A volte è bene che il rapporto bilaterale sia arricchito da altri, non tanto con funzioni di mediatori ma per permettere ai due interessati di porre le loro rispettive esigenze in un contesto più ampio. L’idea di convocare a Berlino i vertici di Francia, Germania e Polonia, è stata quindi particolarmente opportuna. Lo è stata soprattutto la presenza polacca, non solo per l’autorevolezza personale di Donald Tusk (nuovamente nel ruolo di Primo Ministro), ma soprattutto perché la partecipazione del Paese membro più esposto sul fronte orientale può essere molto utile in una discussione centrata principalmente sull’Ucraina e sui rapporti con la Russia. Da quello che è emerso, l’incontro del 15 marzo non ha permesso di chiarire tutte le questioni aperte, ma sembra che si siano realizzati alcuni progressi importanti.

 

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Le ragioni per cui siamo in larga maggioranza pervenuti alla convinzione che la libertà dell’Ucraina rappresenta la frontiera della sicurezza di tutti gli europei sono note e non è quindi necessario riprenderle in questa analisi. Per capire la natura e l’importanza delle questioni aperte, è bene analizzarle su due piani diversi. In primo luogo, bisogna partire dalla premessa che il conflitto a cui siamo confrontati riguarda una potenza nucleare; per di più in un contesto in cui si possono avanzare dubbi legittimi sulla credibilità a lungo termine dell’impegno americano. Siamo quindi in una situazione in cui valgono le regole della deterrenza. Fin dal primo giorno dell’invasione ci siamo quindi tutti interrogati sugli scenari che avrebbero potuto condurre a una escalation del conflitto con il possibile impiego da parte della Russia di armi nucleari tattiche. La domanda è legittima perché, anche se il confronto è cominciato nel ormai lontano 2014, si tratta della prima crisi del genere dalla fine della guerra fredda, con una vittima non nucleare che ci sentiamo impegnati a proteggere, ma che non è coperta dalle garanzie che discenderebbero dall’appartenenza alla NATO.

Anche se la sua dottrina nucleare è ufficialmente conosciuta, si tratta della prima crisi con la Russia di Putin. Nel mondo reale, le parole contano in primo luogo per come sono percepite e non hanno altro valore che gli effetti concreti che producono. Non è sempre agevole districarci fra la retorica putiniana e quella dei suoi principali collaboratori, ma nulla ci autorizza a credere che rispetto alla dirigenza sovietica che avevamo imparato a conoscere, l’approccio di Putin alla deterrenza sia lo stesso. Questo processo di apprendimento nei confronti della leadership russa attuale, che non ha del resto conosciuto ritmi simili fra tutti i membri della NATO e dell’UE, ha condizionato fin dall’inizio la natura dell’appoggio militare all’Ucraina. Da un lato ciò ha contribuito a rallentare in modo significativo la quantità e la qualità dell’aiuto che abbiamo fornito. Dall’altro è facile constatare che molte delle forniture attuali sarebbero state impensabili nella primavera del 2022. Ciò non significa però che le nostre analisi siano oggi completamente allineate.

 

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Uno degli elementi dalla discussione attuale, la fornitura di missili crociera a lungo raggio Taurus da parte della Germania, è a questo proposito emblematico. Dopo i risultati non soddisfacenti dell’offensiva ucraina dell’anno scorso, tutti gli alleati sembrano essere allineati su una strategia fondamentalmente difensiva, ma accompagnata dalla necessità per l’Ucraina di poter colpire le linee di approvvigionamento del nemico in territorio russo e in Crimea. Non a caso la discussione sulle forniture necessarie è centrata sulle munizioni d’artiglieria, sugli arei da combattimento e su missili a media gittata. Da questo punto di vista, la riluttanza tedesca a fornire i missili richiesti è difficilmente comprensibile – anche se è stata giustificata con motivazioni tecniche e industriali, in sostanza per carenza di approvvigionamenti nell’immediato.

È però altrettanto incomprensibile che il Presidente Macron da febbraio abbia sollevato, senza alcuna consultazione seria con gli alleati, la questione del possibile invio di truppe di terra senza peraltro chiarire quale sarebbe la loro natura e la loro funzione. Tutto ciò in un contesto in cui il concreto sostegno francese non è considerato da molti all’altezza di ciò che la Francia potrebbe fare, in chiave di rifornimenti. Non deve quindi sorprendere la costernazione di molti alleati, europei e non, di fronte a una situazione in cui i due principali Paesi europei, da un lato non forniscono ciò di cui c’è immediato bisogno, mentre dall’altro prospettano vagamente interventi che l’Ucraina si guarda bene al momento dal richiedere.

La seconda questione riguarda la narrativa: chi parla, ciò che dice e soprattutto come lo dice. Tutte le democrazie sono strutturalmente portate a un certo grado di cacofonia nella comunicazione. L’UE ancora di più perché la sua natura la obbliga ad esprimersi non solo attraverso le istituzioni, ma anche attraverso i singoli governi. È un fatto che per tutti i nostri governi la politica estera è largamente funzione di quella interna. Ne discende che quando i leader parlano, lo fanno rivolgendosi in primo luogo alla propria opinione pubblica; ognuno con il proprio stile e secondo la cultura nazionale. Gli amici della Francia sono abituati a una comunicazione che contiene un grado di retorica, a Parigi, che è assente in praticamente tutti i Paesi vicini. Molti ricorderanno come, nel momento più acuto della pandemia e quando tutti volevano svegliare l’attenzione dell’opinione pubblica, Emmanuel Macron dipingeva solennemente il problema come una “guerra”, mentre Angela Merkel martellava che si trattava di una questione “molto seria”. In tutto ciò, niente di male. Tuttavia, quando i leader parlano alla propria opinione pubblica, sembrano non curarsi troppo di come le loro parole saranno recepite oltre confine; la stessa retorica, o la sua assenza, può risuonare in modo molto diverso se tradotta dal francese in tedesco, in italiano, in inglese, o viceversa.

Un altro aspetto che la narrativa dei leader spesso trascura, è che le parole hanno una loro reputazione a seconda di chi le pronuncia. Tutto ciò che è detto a Berlino sarà interpretato alla luce di un sospetto residuo di pacifismo o di riluttanza a impegnarsi seriamente ad affrontare l’aggressività russa. L’incubo di Stalingrado e di Kursk o comunque un residuo “merkelismo”. Tanto più se emana da un Cancelliere il cui partito (la SPD) ha una base piuttosto reticente all’impegno militare. Un disastro di comunicazione che è stato abilmente sfruttato dalle rivelazioni russe su aperti dissensi fra governo e vertici militari tedeschi a proposito delle condizioni di utilizzo dei missili Taurus, sopra ricordato. D’altra parte, tutto ciò che è detto a Parigi sarà invece interpretato alla luce di residui di gollismo, di volontà di protagonismo e di affermare una “eccezione francese” nei confronti dell’America ma non solo. Tanto più se la narrativa emana da un Presidente che due anni fa passava ore a Mosca o al telefono con Putin e affermava che “non bisogna umiliare la Russia”. È molto probabile che il messaggio peraltro reiterato (proprio al suo ritorno da Berlino dopo la visita del 15 marzo) che Macron voleva trasmettere, era quello di un’Europa determinata a non arretrare di fronte a nulla per sostenere la libertà dell’Ucraina. Bisogna quanto meno constatare che le parole, almeno dal punto di vista degli alleati, sono state mal scelte.

 

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Chi come me è stato coinvolto direttamente o indirettamente nelle intricate vicende europee per più di mezzo secolo, potrebbe essere tentato di concludere che assistiamo a un altro episodio di un processo farraginoso e spesso non esaltante, ma attraverso il quale l’Europa arriva sempre anche se in ritardo a fare la cosa giusta.

La vicenda attuale dovrebbe sconsigliarci questo tipo di compiacenza. Ciò per diverse ragioni. La prima è che i dissensi europei, soprattutto se uniti alla paralisi americana, rafforzano Putin nella convinzione di un Occidente disunito, imbelle e incapace di reazione; lo incoraggiano quindi ad alzare il livello dello scontro. La seconda è che il conflitto in Ucraina è in una fase cruciale i cui tempi sono incompatibili con i bizantinismi europei. Le disquisizioni sulla “difesa europea” sono destinate a restare un appassionante tema per le discussioni nei think tank se non vengono rapidamente prese alcune decisioni imperativamente richieste proprio dalla crisi ucraina. La prima riguarda l’aumento delle spese destinate alla difesa. La Russia, che consacra un terzo del suo bilancio alle spese militari, è ormai entrata chiaramente in una “economia di guerra”. È stato invece calcolato che ai membri dell’UE mancano un po’ meno di 60 miliardi all’anno di spesa militare solo per raggiungere l’obiettivo NATO di 2% del PIL; obiettivo che peraltro molti giudicano insufficiente. Deficit di spesa che è per due terzi dovuto a due grandi Paesi come l’Italia e la Spagna.

In secondo luogo si tratta di stimolare con urgenza la produzione di ciò che è necessario all’Ucraina; anzitutto le munizioni. A questo fine, l’industria europea ha bisogno di garanzie di medio periodo da parte dei governi per procedere agli investimenti necessari. Garanzia che può essere fornita attraverso acquisti e se necessario da finanziamenti congiunti. In terzo luogo, far cadere le remore alla fornitura degli aerei e delle armi a medio e lungo raggio di cui l’Ucraina ha bisogno. Infine, è necessario pervenire rapidamente a un accordo sull’utilizzo dei proventi dei beni russi sotto sequestro a causa delle sanzioni – questione tecnicamente complessa ma non insuperabile.

 

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In ogni operazione di deterrenza, perché è di questo che stiamo parlando, tutto è basato sulla credibilità che è essenziale non solo nei confronti dell’avversario, ma anche e soprattutto fra alleati. L’attuale problema franco-tedesco ci dice che, come spesso succede, ciò che blocca l’Europa non è tanto una divergenza d’interessi quanto una mancanza di fiducia reciproca. Fiducia che può essere costruita non solo con gesti concreti, ma anche allineando le narrative. Ognuno conserverà la propria retorica e la propria cultura, ma evitare la cacofonia dovrebbe diventare una priorità. Questo insieme di sforzi congiunti dovrebbe avvenire subito, nelle prossime settimane. L’urgenza non deriva solo dall’imperativo di fermare la Russia, ma anche dalla necessità di stabilire la nostra credibilità nei confronti di un alleato americano che, anche se con toni a finalità molto diverse fra i due candidati alla Presidenza, ci sollecita nella stessa direzione.

Resta da vedere se e in che modo i due principali governi dell’UE riusciranno a conciliare l’imperativo dell’urgenza con la loro palese debolezza sul piano interno. Visto con gli occhi degli altri membri dell’UE, il paradosso è infatti che osserviamo due sistemi politici dotati anche se in modo diverso di un grado elevato di stabilità, ma entrambi politicamente indeboliti.

Nel caso francese, un Presidente che detiene poteri importanti ed è inamovibile per i prossimi tre anni, ma in perdita di popolarità e privo di maggioranza parlamentare. Nel caso tedesco, un Cancelliere debole, alla guida di una colazione rissosa i cui componenti stanno tutti perdendo consensi. Due situazioni precarie in cui però nessuno ha per il momento interesse a provocare l’unico chiarimento possibile che sarebbe rappresentato da elezioni anticipate.