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La Turchia tra democrazia svuotata e autocrazia in costruzione

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La democrazia turca è in caduta libera. Eppure, come se il rischio che il crocevia tra Occidente e Oriente affondi in un consolidato autoritarismo non avesse niente a che fare con la sicurezza dell’architettura transatlantica, gli equilibri del Mediterraneo e la stabilità del Medio Oriente, o forse proprio per questo, la comunità internazionale si ferma ad assistere in un attento silenzio, recitando al più un cauto borbottio.

Un momento delle tante proteste per l’arresto di Imamoğlu

 

Dietro l’arresto di Imamoğlu

Lo scorso 19 marzo, l’arresto, insieme a un centinaio d’altri, del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, accusato di corruzione, abuso d’ufficio e (solo in prima battuta) addirittura di favoreggiamento al terrorismo, potrebbe aver segnato il passo irrimediabile nel processo di progressivo disfacimento che colpisce i pilastri laici e democratici della Turchia sotto il ventennale “sultanato” di Recep Tayyip Erdoğan (al timone del Paese dal 2003 tra il ruolo di primo ministro prima e poi quello di presidente della Repubblica – con pieni poteri dal 2018).

Per il Partito Popolare Repubblicano (CHP), la più antica e ancora prima forza laica e socialdemocratica del Paese, a cui appartiene Imamoğlu, l’iniziativa ha indubbiamente una matrice politica: il segretario Özgür Özel parla di un vero e proprio “colpo di Stato contro il nostro prossimo presidente”.

Anche per i più esperti analisti, attivisti e studiosi internazionali la mossa è da inquadrare come politicamente motivata dalla necessità di fermare l’ascesa di colui che prima è stato protagonista della storica conquista della megalopoli sul Bosforo, il più pesante schiaffo politico che il potere centrale abbia mai incassato. Poi si è fatto figura di riferimento di un’opposizione in precedenza ancora divisa e inefficace. E oggi rappresenta il più accreditato sfidante all’egemonia di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali previste per il 2028.

 

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Attorno alla vicenda sembrano contestualmente intrecciarsi manovre politiche di più ampio respiro, tra cui quelle legate alla riconquista dell’elettorato curdo (tra il 15 e il 20% della popolazione turca). Per blindare il potere presidenziale, Erdoğan ha infatti bisogno del sostegno del filo-curdo Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (DEM): rompere l’alleanza informale che lega quest’ultimo a Imamoğlu, divenuto negli anni punto di convergenza tra l’opposizione laica e il voto curdo, non solo servirebbe a preparare il terreno per strategiche elezioni anticipate, ma è soprattutto un passaggio chiave nella partita per la riforma costituzionale necessaria all’abolizione del limite dei due mandati presidenziali che ora ostacola la nuova corsa ambita dal numero uno del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), di fatto al suo terzo incarico.

Intanto che il ministero della Giustizia turco e lo stesso AKP si affannano a rigettare ogni accusa di politicizzare il sistema giudiziario, va notato che si tratta solo del più eclatante di una lunga sequela di procedimenti giudiziari condotti da una magistratura che ormai agisce quale braccio operativo dell’esecutivo, che pare avere adesso l’obiettivo di ridisegnare l’opposizione.

Come già fatto, d’altronde, con i media, le istituzioni politiche, di sicurezza ed educative, la magistratura stessa: tutte vittime di quella lenta ma costante decostruzione di ogni contrappeso democratico che è il filo conduttore dell’era Erdoğan, regista del sistema iper-presidenzialista che dal referendum costituzionale del 2017 regge una Repubblica priva di un reale equilibrio tra i poteri e di uno stato di diritto, dove il parlamento non è più che un organo gerarchico e le regole del gioco democratico sono sistematicamente manipolate.

Le proteste innescate da quello che è percepito come l’ennesimo attacco all’ultimo argine contro la deriva autoritaria che da tempo erode la democrazia nella Repubblica che fu di Atatürk e che oggi Freedom House classifica come “non libera”, sono le più grandi dell’ultimo decennio, quanto meno dai tempi di Gezi Park nel 2013.

 

Proteste ed escalation autoritaria

Da settimane il dissenso corre giovane e rumorosissimo per tutto il Paese. Da Ankara a Smirne, da Konya a Mersin, centinaia di migliaia di persone, studenti soprattutto, hanno invaso le piazze di metropoli e piccole città al grido di “Diritti, Legge, Giustizia!” – il 29 marzo sarebbero state oltre due milioni, a detta del CHP, quelle radunate a Istanbul. L’indignazione si è riversata impetuosa anche online: è lo stesso ministero degli Interni turco a contare oltre 18,6 milioni di post solo su X nelle 24 ore successive all’arresto di Imamoğlu.

Il governo, adottando la solita retorica di delegittimazione e criminalizzazione contro il movimento di protesta, risponde con una cifra repressiva di estrema violenza: mentre la censura su quanto accade ingabbia la stampa e oscura i social media, le principali città sono state militarizzate e i gruppi per i diritti umani e per la libertà di stampa denunciano l’uso ingiustificato e illegale della forza contro i manifestanti pacifici, “con persone picchiate con manganelli e prese a calci mentre erano a terra. Le forze dell’ordine hanno utilizzato indiscriminatamente spray al peperoncino, gas lacrimogeni, proiettili di plastica e idranti contro i manifestanti, causando numerosi feriti” – come si legge sul comunicato siglato da 15 organizzazioni internazionali il 27 marzo. Sono migliaia i fermi e gli arresti arbitrari tra politici, studenti, attivisti, giornalisti, personaggi dello spettacolo. La repressione si abbatte su tutte le forme di contestazione, persino sugli scioperi sindacali indetti in solidarietà agli universitari in agitazione e sulle voci critiche dalle professioni legali. A centinaia stanno per essere processati, in massa, frettolosamente, e senza alcuna prova di illecito, a riprova di quanto “le restrizioni al diritto di riunione imposte dalla Turchia – una serie di divieti assoluti di protesta e assemblea si susseguono da quel 19 marzo – siano arbitrarie e incompatibili con una società democratica basata sullo stato di diritto”, scrive Human Rights Watch.

A chiarire il fermo posizionamento della società civile turca al fianco della causa della resistenza alla virata anti-democratica che travolge il sistema c’è anche la massiccia adesione al “No Shopping Day” dello scorso 2 aprile, la giornata del boicottaggio economico delle aziende vicine al presidente e alle reti di partito (ma non solo) che, lanciata dai gruppi studenteschi e sostenuta dall’opposizione, ha trasformato la sospensione degli acquisti in un atto di disobbedienze civile, simbolico ma estremamente potente. L’arresto di una decina di persone per la diffusione sui social media degli appelli al boicottaggio e le accuse formalizzate ai promotori dell’iniziativa sospettati di “incitamento all’odio e all’ostilità”, hanno segnato anche in questo caso la reazione governativa.

Ancora prima, c’erano stati  i circa 15 milioni di voti – ben al di là del numero di iscritti al partito – raccolti da Imamoğlu alle primarie simboliche indette all’indomani della sua incarcerazione, che lo hanno ufficialmente investito quale candidato del CHP alle presidenziali.

Il fermento scatenato dall’arresto di Imamoğlu ha anche impattato pesantemente sull’economia turca, già in una profondissima crisi legata dagli economisti all’indebolimento dell’indipendenza della banca centrale e in generale al deterioramento dello stato. La lira turca si è deprezzata di circa il 12% rispetto al dollaro e all’euro, e una significativa fuga di capitali sintomo della grave perdita di fiducia da parte degli investitori interni ed esteri ha inferto un duro colpo ai mercati finanziari, tanto che la banca centrale a metà aprile aveva dovuto bruciare 45 miliardi di dollari in riserve estere per garantire la stabilità della valuta nazionale.

A farla breve, mai come oggi si era affermata con tanta evidenza la consapevolezza che potrebbe essere vicina la fine dell’ “autoritarismo competitivo” che ha fin qui governato la potenza euroasiatica. Ancora l’ultimo Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit riconosceva quello turco come un regime ibrido, con un piazzamento al 103° posto su 167, tre posizioni sopra la categoria autoritaria. Ma con l’arresto di Imamoğlu – ripetono i più autorevoli analisti interni e internazionali – la Turchia potrebbe aver superato la soglia critica: si staglia lunga sul futuro dei turchi l’ombra della piena e radicata autocrazia, giusto appena vestita di fattezze democratiche.

Dall’Occidente non arriva che silenzio. O quasi. Al di là di qualche timida dichiarazione, nessuna reazione di peso si è levata contro il reis d’Anatolia.

Per un verso, a soffocarla c’è l’eco della deriva populista e reazionaria che attraversa buona parte del panorama politico occidentale, di tale portata e tanto complessa che “la mossa di Erdoğan potrebbe non sembrare poi così fuori sincrono con le tendenze globali”, per citare la Brookings Institution.

 

La Turchia nella tela geopolitica globale

A influenzare l’estrema prudenza occidentale rimane, anche e innanzitutto, la centralità geostrategica che Ankara ha saputo conquistarsi nello scacchiere internazionale giocando d’equilibrismo tra Russia, Stati Uniti ed Europa, che certamente la protegge dalle critiche più aspre sulle questioni che in fin dei conti attengono alla dimensione interna e sono dunque facilmente declassabili a non-priority.

 

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La regressione democratica a poco vale sul fronte americano, dove il leader del neottomanismo può contare su rinnovati rapporti d’amicizia con l’amministrazione Trump, notoriamente poco incline a fare della promozione delle democrazie una priorità, in Turchia come altrove. Le relazioni transnazionali qui si reggono tutte sulla strategia mediorientale di Washington, in particolare rispetto alla Siria post-Assad ma anche nei confronti dell’Iran. Con la sua proiezione regionale e il profilo da forza stabilizzatrice sul più ampio vicinato, la sponda asiatica dell’Alleanza Atlantica resta un interlocutore imprescindibile per lo Studio Ovale, nonostante le divergenze su Israele.

La Turchia rimane un partner chiave anche per l’Unione Europea e gli Stati membri su dossier cruciali, dalle crisi migratorie all’energia. Fino, forse soprattutto, alla cooperazione in materia di difesa e sicurezza, oggi più centrale che mai in chiave di contenimento di Mosca nel Mar Nero e nel Caucaso, nondimeno alla luce di un potenziale ridimensionamento della presenza militare statunitense sul Continente (tanto che si discute anche di un contributo turco a una eventuale forza di peacekeeping in Ucraina). Se è vero che “lo status quo prima dell’arresto di İmamoğlu era confortevole per l’UE perché c’era abbastanza democrazia” – così ha dichiarato alla rivista Politico Dimitar Bechev, docente all’Università di Oxford – lo è altrettanto che “i recenti sviluppi non sono ancora abbastanza gravi da cambiare le cose”.

Sul tavolo, anzi sui molteplici tavoli su cui l’ambiziosa Ankara è capace di giocare, ci sono parimenti il ruolo da secondo esercito della Nato, lo status di candidato di lunga data all’adesione all’Unione Europea, come la partecipazione dalla prima ora al Consiglio d’Europa. E non da ultimo va considerato quanto stia sempre più prendendo corpo la postura della Turchia come attore strategico (seppur ambiguo) nelle crisi internazionali, pensiamo – uno tra tutti – alla sedia ottenuta nei negoziati tra Mosca e Kiev.

Insomma, nessuno, nella cornice euro-atlantica, ha interesse a compromettere i rapporti con il “guardiano del Bosforo”. La prudente reazione occidentale alla crisi turca conferma ancora una volta quanto i diritti umani, le libertà individuali e i principi democratici non costituiscano la bussola della politica estera, che continua a puntare dritta sulla tutela ad ogni costo degli interessi strategici.

Ignorare gli sviluppi della crisi della democrazia turca è, però, un rischio tutt’altro che marginale per l’Occidente, non foss’altro perché, lasciando che la Turchia perda la sua eccezionalità democratica nel quadro mediorientale, si potrebbe tracciare il solco di un modello replicabile nel più ampio contesto mediterraneo legittimando pratiche illiberali nel nome della realpolitik. L’imprevedibilità di una Turchia sempre più autoritaria e instabile – oltre che guidata da una politica estera sempre più orientata all’autonomia strategica, come dimostra la linea autonoma nei rapporti con Mosca e Pechino – rappresenterebbe poi una minaccia reale alla tenuta dell’intero impianto transatlantico. Al tempo stesso, l’erosione dello stato di diritto sul Bosforo potrebbe far vacillare la credibilità europea nella regione e mettere a repentaglio le prospettive di cooperazione nel vicinato meridionale.

 

La scommessa di Erdoğan e i suoi esiti

Anche sul teatro interno, estremamente polarizzato dalla politica centrata su populismo, nazionalismo e religione promossa dal suo leader, la Turchia al bivio apre a scenari altrettanto carichi di incertezza. Dando per improbabile l’ipotesi di un intervento della comunità internazionale che spinga l’autocrate turco a concedere aperture all’opposizione, organizzata e non, restano sul tavolo due possibili alternative: un’ulteriore vittoria o la definitiva sconfitta di Erdoğan.

La prima, che diversi esperti di politica internazionale ritengono più probabile, passerebbe per la via della normalizzazione repressiva: soffocamento delle proteste, definitiva rimozione di Imamoğlu dall’arena politica e consolidamento del controllo governativo. Dritti sulle elezioni meno libere mai celebrate nella storia recente del Paese.

La seconda alternativa, più incerta ma potenzialmente dirompente, contempla un’escalation delle proteste, in espansione e radicalizzazione, al di là della capacità di contenimento del governo. In tal caso, insanabili fratture potrebbero emergere all’interno delle politicizzate forze armate e dello stesso partito di governo, a dettare la caduta dell’esecutivo o la riabilitazione politica di Imamoğlu, uno scenario che per Erdoğan potrebbe equivalere comunque a un suicidio politico.

Il futuro della Turchia resta profondamente incerto, combattuto tra l’incombere dell’autocrazia e la fragile speranza di una rinascita democratica spinta dalla vitalità della più giovane resistenza civile.

Sospesa tra una democrazia svuotata e una dittatura in costruzione, la Turchia è oggi uno specchio inquietante delle fragilità delle democrazie contemporanee, che mentre crollano non fanno rumore. Che lo stato di diritto possa sgretolarsi tanto facilmente, picconando la democrazia dall’interno, sotto lo sguardo attentamente distratto della comunità internazionale, non è questione da potersi archiviare quale affare interno. Andrebbe letta, piuttosto, come un pericoloso precedente.