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COP27: una conferenza difficile sull’ordine globale

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 La conferenza sul clima, a Sharm el-Sheikh, discute non soltanto di politiche climatiche, e riguarda di fatto l’intero impianto dell’ordine globale. Questo è un bene e un male al tempo stesso.

I precedenti summit sui cambiamenti climatici e sulle possibili contromisure hanno reso evidente che è necessario ricalibrare – in alcuni casi modificare radicalmente – le filiere produttive, i modelli di crescita o sviluppo, e perfino le abitudini quotidiane di miliardi di persone. E’ chiaro dunque che si tratta di dar vita a un nuovo ordine internazionale, partendo dal presupposto che il mondo del XXI secolo è fortemente interdipendente, più di quanto pensassimo fino a poco tempo fa.

I capi di stato e di governo e delle istituzioni internazionali all’apertura della COP27

 

Per rendersene conto, basta ricordare questi passaggi: la transizione sostenibile implica una transizione energetica accelerata, che a sua volta implica una riallocazione dei flussi energetici fossili (tuttora indispensabili sia come “ponte” sia come risorsa durevole per le economie meno avanzate), che a sua volta implica assestamenti diplomatici e di sicurezza con impatti diretti su popolazioni, sistemi politici e flussi migratori. E abbiamo qui delineato soltanto uno dei possibili collegamenti a cascata. Un altro filone di eventi a cascata è quello dei prezzi e delle spinte inflattive, che almeno in parte sono legati proprio alle politiche climatiche – e infatti hanno preceduto l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio scorso pur essendo stati intensificati da quello shock.

A fronte di queste sfide monumentali, la COP27 è una vera opportunità di dialogo e coordinamento, ma deve sopportare il peso terribile di un riassetto complessivo dei rapporti globali tra Stati e tra sistemi economici. Dobbiamo allora, realisticamente, aspettarci grossi ostacoli e negoziati durissimi.

Uno dei punti più controversi dell’agenda è, già dal 2015, come rendere operativo il “patto” tra Paesi tecnologicamente più avanzati e maggiori economie emergenti, che dovrebbe poi anche supportare i Paesi più poveri e fragili. In sostanza, i più ricchi hanno ormai ammesso di avere una responsabilità verso i più poveri, in cambio di un’ammissione da parte di chi sta crescendo più rapidamente della propria responsabilità in quanto “nuovi inquinatori”. Questa sorta di triangolo deve funzionare in modo piuttosto coordinato se vogliamo distribuire in modo accettabile i costi e le incertezze (perché di incertezze ce ne sono molte, di cui forse si parla poco) di una trasformazione strutturale verso la sostenibilità ambientale.

 

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E proprio qui emergono almeno due problemi davvero intricati. Il primo problema è che oggi i maggiori inquinatori non sono i Paesi più ricchi pro capite bensì i più grandi, o quelli che hanno sperimentato una crescita economica molto rapida – e questo sarà sempre più vero nei prossimi anni. Nel 2020, tra i primi venti “carbon emitters” troviamo India, Messico, Sud Africa, Iran, Indonesia, e Brasile, oltre a un’economia peculiare come quella dell’Arabia Saudita. Dunque, il quadro è più complicato rispetto a una semplice (e moralmente soddisfacente) redistribuzione di reddito su scala globale.

Secondo problema: se si prendesse in considerazione non solo la CO2 ma anche altre forme di alterazione dell’ambiente naturale, che spesso precedono di gran lunga la rivoluzione industriale, lo schema della “redistribuzione dei danni ambientali” diventerebbe quasi impossibile da quantificare. Ad esempio, è noto e comunemente accettato come dato storico che le praterie nordamericane erano boschi (bruciati dai nativi prima dell’arrivo degli europei), e che la megafauna australiana si è estinta per interventi analoghi da parte degli aborigeni. Allora, quanto indietro è opportuno andare per calcolare i danni ambientali, i costi e le responsabilità? E quante altre rivendicazioni incrociate dobbiamo aspettarci in futuro se ci si avvia sul percorso delle “compensazioni”?

C’è poi un altro tipo di sfide, non solo diplomatiche e tecnologiche ma anche politiche e sociali. Dovendo cercare un bicchiere mezzo pieno nella situazione pur preoccupante dei trend climatici, vediamo che le grandi aziende (ma non solo le grandi) hanno ormai incorporato la transizione verde nei loro piani di investimento, per cui nessuno si aspetta di bruciare carbone per decenni – è chiaro cioè che sono in corso delicati aggiustamenti ma la linea è tracciata, e va verso le fonti rinnovabili. Il guaio semmai è che aver ridotto gli investimenti sulle fonti fossili – quando ancora questi erano e sono palesemente indispensabili, soprattutto nella componente gasifera – non ha realmente contribuito alla transizione e ha invece aggravato lo shock di questo 2022, in particolare perché i costi di raffinazione del petrolio e di trasporto e lavorazione del gas stanno trainando l’inflazione. In un contesto di pressioni inflattive, le priorità cambiano repentinamente, e a soffrirne rischia di essere anche il settore “green” nelle sue molteplici applicazioni.

Il fattore finanziario, in altre parole, è fondamentale per la riuscita di una trasformazione produttiva così complessa; se la transizione energetica non è “economicamente sostenibile”, si farà assai più lentamente. Certo, vanno monitorati gli episodi di vera speculazione, ma non ha senso ingaggiare battaglie contro i profitti delle aziende energetiche quando esse (e i loro profitti) sono comunque essenziali per la stessa transizione verde.

 

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Intanto, dato rilevante e poco apprezzato, produttori e consumatori – almeno in alcuni paesi – stanno riducendo i consumi in modo massiccio: ad esempio, si stima che in Italia i consumi elettrici siano calati di circa un quarto per gli usi industriali e di quasi il 50% per gli usi domestici.

E’ allora necessario prendere atto di un messaggio che finora i governi (e gli attivisti) hanno esitato a lanciare in modo esplicito e coerente: la transizione passa anche attraverso una consistente riduzione dei consumi energetici, che in una prima fase dovrà avvenire soprattutto nei Paesi più ricchi. Non è affatto necessario che ciò coincida con una recessione economica, visto che l’efficienza energetica può aumentare moltissimo e le abitudini dei consumatori possono molto contribuire a limitare gli sprechi, senza alcun danno per la produttività e il tenore di vita.

Qui si innesta nella questione una certa difficoltà di comunicare adeguatamente i fatti all’opinione pubblica e perfino di discuterne tra vertici governativi se il “greening” diventa (anche) un’ideologia.

La transizione verde ha certamente alcuni veri nemici, ma deve anzitutto fronteggiare sfide strutturali che non sono causate dalla volontà di rapaci speculatori: in primo luogo, essa implica una trasformazione industriale in tempi compressi, con effetti indesiderati su intere filiere produttive e dunque anche sui lavoratori di quei settori; in secondo luogo, viene a volte confusa con una catarsi del capitalismo, ma ha assoluto bisogno dell’innovazione tecnologica che soltanto i mercati aperti possono fornire; in terzo luogo, deve coinvolgere le abitudini e gli stili di vita dei cittadini comuni, che sono al contempo produttori, consumatori, e fruitori dell’ambiente naturale; infine, la transizione produce ripercussioni politico-strategiche globali, cambiando gli equilibri tra produttori/esportatori e consumatori/importatori di energia fossile.

Ignorare queste sfide, o fingere che dipendano dai cinici interessi di poche multinazionali, rende ancora più difficile affrontarle, come si vede alla COP27.

In un noto romanzo di Isaac Asimov, uscito nel 1983 (The Robots of Dawn), il padre delle “leggi della robotica” – che sono tuttora concettualmente rilevanti nel discutere di intelligenza artificiale – fornisce uno spunto affascinante sulle questioni ambientali. Uno dei personaggi di Asimov spiega come uno dei pianeti colonizzati dalla specie umana in un futuro immaginario adotti verso l’ambiente proprio lo stesso approccio che renderebbe sicura l‘interazione tra esseri umani e robot: un pianeta che non faccia nulla per danneggiare l’umanità; che obbedisca ai desideri umani senza comunque danneggiarli, magari per loro stesso errore; che protegga se stesso, pur senza violare le due leggi precedenti.

 

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Nello scenario immaginato dal romanzo, la tecnologia consente un altissimo livello di manipolazione dell’ambiente naturale e dunque una capacità di graduare gli interventi con precisione; ma il principio di fondo è comunque valido anche nella nostra realtà sul pianeta Terra del XXI secolo. Almeno in un approccio umanista, oltre che razionalista e improntato al metodo scientifico, l’obiettivo non è subordinare l’azione antropica a una presunta e astratta “volontà” della natura – che di fatto è essa stessa un concetto antropomorfico – ma invece di salvaguardare il bene comune nel senso più ampio possibile e in modo lungimirante, frenando i nostri istinti peggiori.

E’ una ricetta difficile da realizzare, che prefigura un vero ordine internazionale in parte diverso dal semi-ordine contestato in cui ci troviamo oggi. Eppure a volte bisogna pensare in grande, e pensare globale.