international analysis and commentary

Capitalismo di guerra

Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2025 di Aspenia

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L’espressione “economia di guerra” è utile non solo per descrivere gli sforzi di paesi belligeranti di riorientare la propria economia per produrre i beni necessari al conflitto, ma anche per riferirsi alla situazione in cui ci troviamo già oggi, pure in assenza di conflitti armati che ci coinvolgano direttamente. E – si badi bene – non perché il tema del riarmo sia diventato prioritario dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la svolta di Trump II.

 

I PREPARATIVI DELLA GUERRA ECONOMICA. Ormai da alcuni anni gli Stati stanno adattando il proprio sistema economico a un “possibile” conflitto, accorciando la supply chain (eufemisticamente si parla di friendshoring o de-risking), differenziando le forniture energetiche, approvvigionandosi delle materie prime critiche, cercando di controllare i flussi dei dati trasmessi all’estero, limitando le forniture di prodotti ad alta tecnologia (microchip in particolare) a paesi ritenuti competitor strategici, bloccando gli investimenti esteri e persino quelli in uscita, e così via. Insomma, per dirla in poche parole, stiamo richiudendoci in noi stessi, perseguendo una impossibile autarchia economica, per essere preparati in caso di guerra. E tutto ciò rischia di diventare una profezia che si autoavvera.

Le ultime mosse di politica commerciale del Presidente Trump hanno reso evidente a tutti la situazione, portando sulle prime pagine dei quotidiani e nei talk-show un dibattito che prima riguardava solo studiosi di geopolitica, economisti e qualche maître à penser più illuminato. Ma questo fenomeno, che sta stravolgendo l’ordine economico internazionale, non nasce certo oggi. Le prime avvisaglie risalgono a poco meno di una decina d’anni fa, durante la prima presidenza Trump, e da allora la situazione si è progressivamente complicata. I conflitti economici si sono moltiplicati e sono diventati sempre più virulenti.

Anzitutto, non si tratta più di un semplice scontro tra blocchi contrapposti o superpotenze, come eravamo abituati a vedere nel passato, ma di una guerra di tutti contro tutti. Gli Stati Uniti, per esempio, anche durante l’amministrazione Biden, nonostante la grande enfasi sul rapporto transatlantico, hanno intrapreso una politica economica che ha penalizzato le imprese europee: un mix di sussidi (basti citare le previsioni sul local content dell’Inflation Reduction Act), misure protezionistiche (il Buy American Act) e dazi (ancorché poi temporaneamente sospesi). La conflittualità tra Washington e i tradizionali alleati (in primis Canada, Messico e Unione Europea) si è poi accentuata con il ritorno alla Casa Bianca di Trump, assumendo delle connotazioni inimmaginabili nei rapporti economici tra paesi con così stretti legami economici e politici, accompagnate da una violenza verbale senza precedenti (la dichiarata intenzione di far fallire l’industria automobilistica canadese e i riferimenti agli europei come “parassiti”). E se tale dinamica è particolarmente evidente negli Stati Uniti, anche in Europa si assiste a un’enfasi crescente sulla “autonomia strategica”, la “sicurezza” e, in genere, su politiche finalizzate a promuovere l’autosufficienza. In altri termini: l’interdipendenza è vista essenzialmente come dipendenza e fonte di rischi alla sicurezza nazionale.

In secondo luogo, la conflittualità è andata estendendosi a macchia d’olio, passando dalla politica commerciale a molteplici altri settori. Si parla soprattutto dei dazi, per effetto della doccia scozzese degli executive order di Trump che si succedono da mesi senza sosta, ma questa non è che la punta dell’iceberg. Sempre per restare nel campo del commercio internazionale, occorre ricordare anche le misure non tariffarie, le sanzioni, i sussidi, le regole sugli appalti che distorcono i “normali” flussi commerciali. Le guerre economiche non si limitano più a questi strumenti, ai quali eravamo tutto sommato abituati. Oggi tutto può essere weaponized (ovvero utilizzato come arma impropria) per acquisire vantaggi sul piano economico o geopolitico: la propria valuta, il controllo di infrastrutture critiche, il sistema di pagamenti interbancari SWIFT, la disponibilità di materie prime indispensabili (le cosiddette terre rare) o di risorse energetiche (il gas russo), ecc.

E i campi di battaglia si sono moltiplicati. Gli Stati competono per la supremazia tecnologica cercando di inibire ai propri competitor l’accesso alle tecnologie più avanzate necessarie per la difesa, l’intelligenza artificiale e la sorveglianza. Gli Stati Uniti finora sono così riusciti a impedire le esportazioni dei microchip di ultima generazione in Cina, imponendo una preventiva autorizzazione anche alle imprese straniere che fanno uso di tecnologie americane. Gradualmente i divieti si sono estesi alle esportazioni di prodotti meno sofisticati e sono stati limitati anche i flussi dei capitali americani in imprese cinesi operanti nel settore tecnologico.

 

GLI ALTRI TERRENI DI SCONTRO. La transizione ecologica, che dovrebbe ragionevolmente indurre gli Stati a collaborare trattandosi di una sfida che interessa l’intera umanità, è diventata un altro terreno di scontro. Si vuole acquisire la leadership nelle tecnologie delle imprese pulite, ritenendo che ciò possa rappresentare un vantaggio competitivo nell’economia del prossimo futuro. E allora anche qui sussidi, tariffe (il cosiddetto Carbon Border Adjustment Mechanism) e misure non tariffarie che mettono la “sovranità tecnologica” davanti alla decarbonizzazione. A dispetto della retorica che vede nel riscaldamento globale la più grave minaccia che il genere umano si sia mai trovato ad affrontare nel suo complesso, le politiche concretamente finalizzate ad affrontarlo sembrano implicitamente assumere che siano peggio la dipendenza dalla Cina per i pannelli fotovoltaici e le batterie o dagli Stati Uniti per il gas liquefatto, e via discorrendo.

La competizione per la sicurezza energetica, dopo che l’Unione Europea – dopo la invasione russa dell’Ucraina – si è scoperta dipendente dalle importazioni di gas per circa l’83,5% ci ha quasi fatto dimenticare l’enfasi posta in precedenza su sostenibilità e competitività. Oggi si parla continuamente di indipendenza energetica, sebbene questa non sia necessariamente sinonimo di sicurezza (come hanno scoperto gli inglesi negli anni Ottanta, messi in ginocchio dagli scioperi dei minatori). Soprattutto, l’idea dell’indipendenza è in netto conflitto con le intenzioni dichiarate di spingere sul progresso tecnologico, poiché la ricerca ha maggiori chance di successo quando si fonda sulla cooperazione a livello internazionale. E, comunque, per povertà di risorse o per il gap tecnologico e produttivo, l’Europa non potrà mai essere energeticamente autarchica.

 

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Le guerre economiche odierne si combattono sempre più spesso, poi, per l’accaparramento delle materie prime critiche (litio, cobalto, gallio, germanio, scandio, ecc.). Non sono “rare”, come la definizione comune ci induce a credere, ma la loro produzione è concentrata in pochi Stati e soprattutto il loro processo di raffinazione è molto inquinante e invasivo. La Cina, che ne dispone in grande misura, le usa oggi come strumento di ritorsione contro i dazi di Trump, limitandone l’esportazione negli Stati Uniti. Il che pone un problema serio perché sono necessarie, tra l’altro, per le fibre ottiche, le batterie, i pannelli solari, le turbine. Fino a poco tempo fa non se ne sentiva quasi mai parlare; improvvisamente sono addirittura diventate la condizione per l’appoggio statunitense al piano di pace in Ucraina. Non solo: la necessità di approvvigionarsene sembra giustificare ambizioni di espansione (“in un modo o nell’altro”) in Groenlandia e magari anche in Canada.

Non possono, infine, essere taciuti i conflitti per la cosiddetta “sovranità digitale”, ovvero per imporre la localizzazione dei dati nel territorio nazionale, limitare la loro trasferibilità, imporre l’applicazione della propria normativa in materia di privacy. Le controversie con gli Stati Uniti originate dalle divergenti regolamentazioni – frutto di una diversa sensibilità in materia – sono finite già ben due volte dinanzi alla Corte di Giustizia dell’UE, che ha invalidato le intese raggiunte per consentire il trasferimento dei dati oltreoceano. Un nuovo accordo è stato concluso durante l’amministrazione Biden, ma il suo futuro potrebbe essere incerto con Trump II.

Senza parlare delle normative europee sui mercati digitali e sull’intelligenza artificiale, che sono diventate il vero pomo della discordia con le Big Tech, supportate ora, con grande veemenza, dalla nuova amministrazione. Tant’è che verosimilmente uno degli obiettivi della pressione americana verso l’UE è di scardinare queste normative che, secondo Washington, pongono eccessivi oneri a carico delle società americane inficiandone la leadership di mercato.

 

L’INTERVENTO DELLO STATO. Molte delle politiche citate hanno una proiezione prevalentemente esterna: riguardano, cioè, il rapporto con altri Stati, mirando non solo a rafforzare comparativamente il proprio apparato industriale, finanziario e militare, ma anche a indebolire quello dei paesi rivali. Spesso hanno però anche chiari risvolti interni: il ricorso estensivo e arbitrario a limiti o controlli sugli investimenti esteri è finalizzato a proteggere i “campioni nazionali”, e nella medesima direzione vanno l’erogazione di sussidi e molte misure che potremmo raccogliere sotto l’ombrello delle “politiche industriali”.

Tutti questi provvedimenti, interni ed esterni, hanno in comune un aspetto di metodo: essi comportano un intervento diretto dello Stato nell’economia molto pervasivo, la sostituzione della mano invisibile del mercato con la mano visibile del governo. Non è più la convenienza reciproca a guidare scelte di investimento e consumo, ma la volontà dichiarata dei governi di perseguire il fantomatico “interesse nazionale” o la “sicurezza nazionale”. Di questi tempi si sente spesso dire che bisogna ripristinare il primato della politica; con ciò si intende in realtà che le scelte delle imprese e degli investitori – guidate in genere dall’aspettativa di ottenere rendimenti adeguati e di fare un impiego (più) efficiente dei fattori della produzione – dovrebbero passare in secondo piano rispetto agli indirizzi o alle strategie pubbliche (come avviene nell’economia di guerra).

 

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A questo punto sono gli Stati a indirizzare le strategie produttive e commerciali delle imprese e le scelte di consumo degli individui, non solo attraverso i propri legittimi indirizzi politici, ma anche e soprattutto mettendo mano ai processi produttivi, fino a mutarne radicalmente la forma. Almeno nelle intenzioni, l’obiettivo è di riorientare le catene del valore e dare priorità alle imprese nazionali, affinché producano i beni e i servizi desiderati e utilizzino input e fornitori “amici”.

È una nuova forma di economia mista in cui non sono gli obiettivi di giustizia sociale a motivare l’intervento pubblico, ma un dichiarato intendimento nazionalista: è quello che noi chiamiamo “capitalismo di guerra”, perché – pur mantenendo gli elementi formali di un sistema capitalistico – vede svilupparsi un ruolo nuovo e aggressivo dello Stato. Un ruolo che trova corrispondenza anche nella retorica che ne accompagna il crescendo, sempre giustificato con la volontà di “respingere lo straniero”, “proteggere la nazione” o danneggiare i nemici.

I COSTI DEL CAPITALISMO DI GUERRA. Il problema è che i costi di tutto ciò possono essere notevoli. In primo luogo, lo sforzo di accorciare le catene del valore e di regionalizzare il commercio internazionale non può che ridurre i tassi attesi di crescita dell’economia. Se l’integrazione economica porta con sé maggiore specializzazione e produttività, la chiusura dei mercati comporta una minore capacità innovativa e un minore output. Se ciascun paese (o regione) diventa un’isola, allora inevitabilmente sconterà tutti i limiti dell’insularità: un ampio filone di letteratura economica ha indagato proprio le ragioni per cui, in generale, le isole crescono meno, e queste hanno a che fare con l’esistenza di barriere fisiche alla specializzazione e allo scambio (la maggiore difficoltà e costo dei collegamenti). Sarebbe davvero paradossale volere introdurre, per legge, quelle stesse barriere che la natura non ha posto.

D’altronde, che il libero scambio sia benefico per tutti coloro che vi prendono parte – quella che Paul Krugman ha chiamato “la difficile idea di Ricardo” – è uno dei concetti più controintuitivi della disciplina economica, che segna la massima distanza tra ciò che per gli economisti è una verità empirica e quel che invece, agli occhi di molti, è platealmente falso. Quando si discute dei benefici del libero scambio, oltre tutto, non si fa riferimento solo al commercio internazionale, ma più in generale alla libertà degli individui di investire, innovare e commercializzare: è evidente che qualunque limite posto a tali attività, per quanto giustificato o bene intenzionato, ha conseguenze sulla capacità del sistema economico di creare valore e benessere.

Dunque, il primo costo del capitalismo di guerra è squisitamente economico: queste politiche, prese nel loro insieme, sono equivalenti a una tassa sulla produttività, che rende il nostro futuro necessariamente più povero.

Ma c’è di più: il progressivo isolamento economico rischia di portare con sé l’aumento, non la riduzione, dei rischi geopolitici, perché può dare sfogo (non solo retorico) a contrapposizioni che oggi non si scaricano a terra solo perché i legami commerciali sono troppo stretti e intricati. Se le diverse economie si integrano e diventano interdipendenti, anche la rottura delle relazioni diplomatiche diventa un’opzione meno facile da perseguire. Infatti, ciascuno dovrebbe rinunciare ai prodotti che importa dall’estero, e che spesso sono fondamentali per il funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Ne è una prova indiretta la retromarcia che Trump ha dovuto fare rispetto alle intenzioni originali di applicare dazi senza precedenti sui principali fornitori degli Stati Uniti, tra cui Canada, Messico, Europa e Cina: di fatto questo avrebbe comportato un boom dei prezzi di molti beni (destinati sia ai consumatori finali sia alle imprese americane che li usano nei loro processi produttivi), in quanto le industrie manufatturiere non sono facilmente delocalizzabili in America (in alcuni casi non lo sono affatto).

 

UN MONDO PIÙ POVERO E PIÙ RISCHIOSO. Di conseguenza, il libero scambio diventa anche un potente alleato della pace. Non vi è, naturalmente, una relazione deterministica: è possibile che due paesi economicamente interdipendenti finiscano per trovarsi in guerra (si veda il caso dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia). Ma in un contesto integrato questo è assai più improbabile. In questo senso, un mondo caratterizzato da un crescente isolamento è inevitabilmente più povero e più rischioso.

È questa la direzione verso cui ci stiamo ineluttabilmente dirigendo? Non è detto. Le filiere internazionali sono oggi troppo lunghe e complesse per potere essere facilmente spezzate. Il commercio internazionale sta dimostrando una grande resilienza. Eppure, lo stratificarsi di restrizioni anno dopo anno avrà conseguenze, come si comincia a vedere dalla turbolenza dei flussi commerciali e dalla divaricazione degli investimenti in innovazione nei vari “poli” dell’economia globale: se si perverrà a un vero disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina (se cioè gli americani non useranno più tecnologia cinese e viceversa), si finirà per avere due o più filoni di ricerca e sviluppo in parte indipendenti l’uno dall’altro, che oltre a determinare duplicazioni di costi e minori sinergie, potranno nel lungo termine allontanare ulteriormente le rispettive economie.

Inoltre, quella a cui stiamo assistendo è la conseguenza di un mutamento politico e, prima ancora, culturale: le persone si sono convinte che la libertà e l’apertura portino più rischi che benefici, e si stanno orientando verso il loro contrario. Diventa quindi essenziale dimostrare la fallacia di questo ragionamento: sebbene la domanda di cambiamento sia comprensibile, la risposta che viene offerta è pericolosa per le ragioni descritte.

I cambiamenti culturali, però, hanno tempi lunghi. Del resto, la stessa svolta in atto – che in maniera diversa è stata interiorizzata a destra e a sinistra, condizionando figure politiche assai diverse e distanti tra di loro – non nasce oggi né è stata un fenomeno improvviso, ma deriva da un lungo lavoro culturale, per molto tempo rimasto sottotraccia. Diventa quindi ugualmente importante adottare tutte le possibili contromisure per limitare i danni.

Esattamente come costruire l’ordine internazionale è stato un processo lungo e contraddittorio, anche la sua distruzione non può essere immediata: è quindi decisivo cercare di puntellare, dove e come possibile, questo ordine, per prevenirne la dissoluzione. Non lasciamoci intrappolare in questo circolo vizioso, incrementando la conflittualità per il timore di rischi futuri che mettano a repentaglio la nostra economia. E così, anziché rispondere alle minacce di Trump con ritorsioni di uguale segno, cerchiamo di attenuarne gli effetti costruendo una più ampia area di libero scambio anche con altre regioni del mondo (a partire dal Mercosur, con cui l’Europa ha da poco concluso la negoziazione di un trattato che attende il via libera definitivo dagli Stati membri).

Proprio perché il mondo è più rischioso, è necessario un maggiore impegno diretto a salvaguardia delle nostre istituzioni e del valore dei rapporti commerciali. Così come era ingenuo pensare che l’interdipendenza creasse di per sé condizioni pacifiche fra gli Stati, è superficiale passare alla tesi esattamente opposta. E in qualche modo renderla inevitabile, con una serie di scelte economiche – interne e internazionali – che accentueranno costi e conflitti.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2025 di Aspenia.